Mapuche, catanese un po’ indiano «Quando canto non racconto, ironizzo»

Si scrive «Mapuche» e si legge «Mapuce». Viene dallo spagnolo. È il nome d’arte di Enrico Lanza, 31 anni, cantautore di Catania, con un disco in uscita il 16 dicembre per l’etichetta indipendente Viceversa records. Emanuele Brunetto, giovane critico musicale, ha accostato il catanese a uno che nella musica italiana ha fatto un pezzo di storia, Rino Gaetano. «A me Rino Gaetano non è che m’abbia mai fatto impazzire», sbotta Enrico, sorridendo. «Mapuche» letteralmente significa «popolo della terra» ed è il nome di una tribù di nativi americani che vive tra il sud del Cile e dell’Argentina. «Ho scoperto la loro storia grazie a un documentario e mi sono molto appassionato – racconta – Ma mica per le tradizioni, è stato proprio il nome a folgorarmi, non saprei dire perché». Doveva essere un nomignolo temporaneo, «però per pigrizia e affezione non l’ho più abbandonato», spiega.

Mapuche è il progetto solista di un musicista che suona la chitarra, il mandolino, l’armonica «e anche spesso il campanello». «Prima facevo parte dei Tramuntana, un gruppo folk che si esibiva in dialetto», racconta. Poi è arrivato un periodo strano, in cui «ho composto queste canzoni e non riusciva a venirmi in mente nessuno, fuorché me, che potesse cantarle». Era il 2007, e il primo demo è arrivato un anno dopo. A pochi mesi dall’inizio del 2011, è uscito Anima latrina, per la Doremillaro records. «Chitarra e voce, pubblicato dopo una settimana – ricorda l’artista – perché mi andava che quelle canzoni rimanessero così, senza nessun arrangiamento, senza troppo lavoro sopra». L’uomo nudo, invece, l’ultima fatica discografica, è più complicato: «Lo suonerò dal vivo con un gruppo: sono un po’ emozionato all’idea, perché è da tanto che non lo faccio e sarà diverso rispetto ad alcuni di anni fa».

Se Rino Gaetano non si può definire un modello, «sicuramente lo sono Gianfranco Manfredi, Flavio Giurato, Lucio Battisti per come strutturava le canzoni, Eugenio Bennato». La base è quella: il cantautorato italiano. Di autobiografico nei testi non c’è molto, «non ho mai avuto l’interesse a raccontare qualcosa della mia vita: il mio interesse prioritario è ironizzare». Come faceva, per dire, «Luigi Pirandello, anche se il collegamento è un po’ forzato e non ho alcuna intenzione di paragonarmi al suo genio». Il punto della scrittura e della musica, per Enrico, sta tutto nell’avere dei contenuti: «Finché avrò qualcosa da dire e qualcuno che mi permetta di farlo come piace a me, continuerò». E non è detto che debba essere una casa discografica indipendente, perché le tanto disprezzate major, in fondo, «non fanno altro che darti più visibilità di chiunque altro, cioè più passaggi in radio».

Seguire la strada della musica partendo dai locali, dai live nei pub, si può, ma a Catania è sempre più difficile. E non perché manchino le opportunità. Secondo Mapuche, «non c’è il pubblico in grado di recepire la musica». Un esempio: «Non mi ricordo bene dove né quando, ma ricordo benissimo il fatto: Francesco De Gregori e Antonello Venditti sono stati fischiati ferocemente dal pubblico – sostiene – per il semplice motivo che erano diventati ricchi con la musica, nonostante fossero di sinistra. Il cantautore veniva percepito come qualcuno che aveva una responsabilità». Responsabilità che adesso non esiste. «Viviamo in un’epoca in cui tutti sono qualcuno o qualcosa, forse non abbiamo più bisogno di maestri di pensiero». Solo in Italia o anche altrove? «È un problema internazionale. Rihanna riempie gli stadi, ma non è Bob Dylan».


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