Mafia, nuovo filone nell’inchiesta sugli appalti Lidl I legami tra la Puglia e i presunti affiliati ai Laudani

Cooperative che venivano indebitate e poi, al momento giusto, liquidate con un metodo che la procura di Milano ritiene «fraudolento». Voci passive, alimentate dai mancati versamenti all’Erario e all’Inps, compensate con crediti che gli inquirenti non esitano a definire «fittizi e solo figurativi, in realtà mai maturati». E, per i facilitatori, la presunta moneta di scambio sarebbe stata una percentuale tra il 35 e il 40 per cento del debito estinto. Versata a volte in contanti, a volte tramite lo schema delle fatturazioni false. È la guardia di finanza di Varese a far emergere i dettagli attinenti al filone pugliese dell’inchiesta antimafia Security (quella sugli appalti alla Lidl), deflagrata lo scorso 15 maggio nell’operazione – eseguita proprio dalle Fiamme Gialle varesine e dagli agenti della squadra mobile – che ha coinvolto a vario titolo 15 persone, alcune delle quali considerate appartenenti al clan Laudani di Catania, con perquisizioni effettuate in quattro Regioni (oltre alla Lombardia, il Piemonte, la Sicilia e, per l’appunto, la Puglia). 

Come in uno spin off televisivo, il cast di questa coda investigativa è una miscela di personaggi noti e di volti nuovi. Il gip del tribunale milanese, su richiesta dei magistrati della Dda Ilda Boccassini e Paolo Storari, ha emesso una nuova ordinanza di custodia cautelare per sette persone. Quattro di loro risultano indagate già dalla prima fase dell’inchiesta: sono gli imprenditori siciliani Luigi Alecci (nato a Paternò, classe 1957) e Giacomo Politi (nato ad Acireale, classe 1976), il calabrese Emanuele Micelotta (nato a Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, nel 1970) e il professionista Alfonso Parlagreco. Assieme a loro, che erano già detenuti dallo scorso maggio, finiscono in carcere il pluripregiudicato Antonio Saracino (di Cerignola, in provincia di Foggia) e i suoi presunti complici Giuseppe D’Alessandro e Antonino Catania, accusati di indebita compensazione con l’aggravante del metodo mafioso

Inoltre è stato portato a termine un sequestro preventivo d’urgenza, per equivalente, da oltre quattro milioni e 885mila euro, una cifra che gli inquirenti considerano pari all’evasione fiscale praticata dal gruppo con una serie di operazioni nebulose. Nel complesso, adesso l’ammontare sottratto al presunto gruppo criminale nel corso delle varie fasi dell’inchiesta tocca i 6,7 milioni di euro, tra beni immobili, mobili e società. Pm e forze dell’ordine lombardi si soffermano in particolare sul rapporto costruito da Alecci, Politi e Micelotta con Antonio Saracino, ritenuto il leader del gruppo pugliese. Per perfezionare le compensazioni liquidatorie che l’accusa ritiene artifici contabili, i foggiani – a quanto pare radicati da anni nel Milanese – avrebbero utilizzato quattro società cooperative con sede a Desio: si tratta di Fast work, Fedel, Green coop e Easy job

La convinzione dei magistrati è che Saracino fosse a conoscenza della presunta appartenenza di Alecci alla cosca Laudani. Come detto, tra i metodi ipotizzati dall’accusa per il versamento del corrispettivo ci sarebbe anche il sistema della fatture false. E qui entra in gioco un’altra cooperativa, la Queen service, considerata nella disponibilità del gruppo. Se Saracino era il baricentro del sodalizio – con Catania, D’Alessandro e tale Luigi Sorrenti nel ruolo di complici – un discorso a parte merita la figura del commercialista foggiano Massimo Ruggiero Curci, considerato «compiacente». 

A lui il nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza ha sequestrato 325mila euro, denaro ritenuto il corrispettivo della sua attività in favore della banda. Le sue competenze in materia fiscale avrebbero permesso ai pugliesi di far sparire i debiti delle coop Alstom servizi integrati e Alstom servizi logistici. Le due società, con pesanti scoperti verso l’Inps e l’Erario, per l’appunto attive nel settore della logistica, sono consorziate al gruppo Sigilog, struttura con sede a Cinisello Balsamo che, secondo gli investigatori, era controllata per l’appunto da Politi, Alecci e Micelotta. Con i primi due che – a detta dei magistrati di Milano – sarebbero i referenti in Lombardia della famiglia mafiosa catanese

Come era emerso nelle ricostruzioni che avevano fatto seguito alla fase 1 dell’inchiesta Security, le cifre da capogiro che venivano fatte svanire e riapparire con presunti trucchi contabili sarebbero state impiegate in due modi: il sostentamento della cosca Laudani, che nel febbraio 2016 aveva incassato un colpo durissimo dall’inchiesta della procura di Catania denominata I vicerè, e la distribuzione di tangenti per l’aggiudicazione di appalti milionari, su due versanti. 

Il primo sarebbe quello dell’organizzazione logistica nei magazzini, l’allestimento di nuovi supermercati, il rifacimenti di negozi e le riparazioni per il colosso della grande distribuzione Lidl, sfruttando le soffiate di «dirigenti stabilmente asserviti» che venivano premiati, a detta dei magistrati lombardi, con regali e mazzette. La società tedesca e i suoi massimi vertici non sono indagati e, in una nota pubblicata a maggio, si sono subito dichiarati completamente estranei alla vicenda e a disposizione delle autorità per facilitare gli accertamenti. Ma alcuni funzionari sono accusati di aver rivelato in anticipo agli indagati l’ammontare proposto dalle altre aziende nel corso delle gare d’appalto, «così da consentire la presentazione di offerte leggermente inferiori e risultare vincenti». 

Per questa ragione, il tribunale di Milano ha deciso di inviare gli amministratori giudiziari in quattro centri direzionali su dieci della catena di supermercati. Tre si trovano al nord Italia, mentre in Sicilia il provvedimento ha riguardato la struttura di Misterbianco, in provincia di Catania. Per un totale di 218 filiali e 600 dipendenti. C’era poi la seconda cordata, che secondo i pm sarebbe stata imperniata sui fratelli catanesi Alessandro e Nicola Fazio, gestori di Securpolice group, società che si occupava della vigilanza all’interno del palazzo di Giustizia milanese. 

Quanto ad Alecci, la dimestichezza nel fare soldi non sarebbe l’unico talento criminale riconosciutogli dalla magistratura. L’uomo è infatti pregiudicato: venne condannato in via definitiva, nel 1988, per omicidio, porto abusivo d’armi e occultamento di cadavere, e – a giudicare dalle intercettazioni contenute nelle carte dell’inchiesta – non avrebbe mai nascosto il suo affetto nei confronti di elementi di spicco del clan, in particolare verso il capo famiglia Sebastiano Ianuzzo Laudani, classe 1969.  


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