Mafia, lo sposalizio tra le famiglie Scalisi e Siverino Ascesa e improvvisa caduta di Antonio u Miliardario

«Arrivavamo che non ci potevamo comprare neanche un panino. Niente, non ce n’è soldi, non si mangia stasera». La storia di u Miliardario inizia da qui. All’epoca – siamo a metà anni Duemila – era semplicemente Antonio Siverino, proprietario di alcuni camion e redditi dichiarati pari a zero. Una vita non semplice, in cui bisognava fronteggiare eventualità come l’incendio dei mezzi. Poi però intorno al 2010 per l’uomo, all’epoca 35enne, arriva la svolta: il figlio Francesco si innamora della nipote del boss Pippo Scarvaglieri, il capo del clan Scalisi che, ad Adrano, rappresenta i Laudani. Quattro anni dopo, arriva il matrimonio a cui il capomafia – da vent’anni in carcere per scontare un ergastolo – non partecipa ma che benedice dalla cella del carcere di Sulmona (in provincia dell’Aquila, in Abruzzo). La riproposizione in chiave criminale di un classico come Miseria e Nobiltà è finita ieri per i Siverino con l’arresto e la pesante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

Per la Dda di Catania, alla luce dei riscontri ottenuti dai finanzieri del Gico, padre e figlio hanno rappresentato per il boss Scarvaglieri il braccio imprenditoriale, la via migliore per investire i denari accumulati illecitamente e, al contempo, evitare aggressioni al patrimonio. Un tentativo che si è scontrato con il sequestro di beni immobili e societari per un valore di circa cinquanta milioni di euro. Il profilo che gli inquirenti tracciano di Antonio e Francesco Siverino è quello di persone che, per quanto vicine al clan Scalisi per la parentela acquisita, tentano di muoversi con circospezione, evitando di frequentare i soldati della cosca. Da qualche tempo tutta la famiglia vive a Valeggio sul Mincio, una cittadina veneta famosa per i tortellini. Nel Nord-Est, ma anche in Lombardia, i Siverino hanno esportato il business dell’autotrasporto su gomme, estendendolo anche al commercio di prodotti petroliferi. Le radici di tutta questa storia vanno però cercate nel Catenese: tra Biancavilla, dove prima risiedevano, e Adrano, il comune in cui il potere criminale è spartito tra il clan Santangelo – legato alla famiglia di Cosa nostra Santapaola-Ercolano – e appunto l’articolazione locale dei mussi di ficurinia rappresentata dagli Scalisi.

«L’ho conosciuto intorno al 2011 in una vicenda di soldi prestati a usura in cambio di assegni, ma senza avere prima chiesto a noi il permesso», ha raccontato ai magistrati il collaboratore di giustizia Gaetano Di Marco, all’epoca reggente del clan. Nell’ordinanza firmata dalla gip Loredana Pezzino sono tante le testimonianze di ex esponenti mafiosi che riconoscono i Siverino. Nel caso dei presunti prestiti usurai, quello che in un primo tempo sembrava un gesto di insubordinazione si trasforma in pochi giorni nella scoperta di protezioni importanti. «Carmelo l’Africano mi disse che era sotto la sua protezione e che mi avrebbe fatto un regalo per chiudere questa vicenda», ha spiegato Di Marco. L’Africano è Carmelo Pavone, esponente di spicco dei Laudani ad Acireale, attualmente in carcere dopo la condanna a oltre 13 anni nel processo Vicerè. Con l’Africano, Antonio u Miliardario avrebbe avuto anche interessi nel settore dei prodotti petroliferi. «Entrambi vendevano abusivamente carburante», ha messo a verbale il collaboratore.

Sul fatto che si conoscessero e che, a sua volta, il boss Scarvaglieri fosse legato a Pavone non ci sono dubbi. «Se c’è l’occasione, salutami l’Africano», dice alla fine di un colloquio in carcere il capomafia al nipote acquisito. Francesco Siverino lo rassicura: «Ti manda a salutare lui, non te lo stavo dicendo per…», si interrompe il ragazzo guardando la telecamera che osserva ciò che succede nella stanza. Il timore, più di una volta condiviso dallo stesso boss, è quello di rischiare che la direzione del carcere possa aggravare le misure. Nonostante tutto, Scarvaglieri ricorda al giovane Siverino che «se c’è qualche problema ti prendi l’aereo e vieni da zio; io ci sono, è come se sono presente».

In questa storia, tuttavia, non c’è spazio solo per gli affetti. Nelle carte dell’inchiesta è raccolta anche l’insofferenza del boss che, consapevole di dover restare in cella, temeva di non poter seguire con adeguatezza ciò che accadeva fuori. E questo anche per una certa ritrosia che i Siverino avrebbero a tratti mostrato nel riferire come andavano gli affari. «Sono cinque anni che sono privo di controllare pure l’attività», è una delle frasi intercettate dagli investigatori. Lo stesso boss poi afferma con disappunto: «Un nipote mio ora doveva prendere posizione al di sopra di me». Capita così che Pippo Scarvaglieri, anche per dare prova a se stesso di potere ancora gestire a proprio piacimento il denaro, chieda alla madre di spedirgli un giubbotto da tremila euro da comprare in una boutique a Catania. La donna, però, non avendo la liquidità e avendo imbarazzo a chiederla all’altro nipote Salvatore Calcagno (anche lui arrestato), decide di riparare su un giaccone nero meno costoso. «Permetti che mi devo vestire a mio gusto?», reclama il boss. E ripensando all’imbarazzo provato dalla madre: «Ti vergogni? Quelli (i soldi, ndr) sono miei e ti vergogni?»


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