Mafia e antimafia, la parola allo storico

Il processo Andreotti e la polemica di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”; la denuncia della Confesercenti sulla mafia come prima azienda italiana; i concetti stessi di “mafia” e “antimafia” alla luce della storia di questi ultimi anni. Di questo si è discusso mercoledì pomeriggio, nell’aula magna del Rettorato, in un incontro con Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo e autore del libro “Che cos’è la mafia. Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica” (edito da Donzelli Virgola). “Per capire il processo Andreotti – ha esordito il professor Rosario Mangiameli, docente a Scienze politiche a Catania – bisogna innanzi tutto chiedersi due cose: in primo luogo che cos’è la mafia per la politica; in secondo luogo che cos’è la politica per la mafia”.

Ma il processo Andreotti è solo uno dei temi della riflessione di Lupo. Di grande importanza sono anche le considerazioni sullo scrittore Leonardo Sciascia, il quale nel gennaio del 1987 aveva apertamente attaccato il magistrato Paolo Borsellino attraverso un famoso articolo apparso sul Corriere della Sera: “I lettori, comunque – scrisse allora Sciascia – prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Secondo il deputato europeo Claudio Fava l’esternazione di Sciascia ha avuto delle conseguenze tragiche, probabilmente non volute dall’autore stesso. “In realtà”, ribatte il professore Lupo “il dibattito dopo la pubblicazione di questo articolo fu violentissimo e, secondo me, non fu un incidente, bensì volutamente ricercato in quella parte. È palese che Sciascia lo aveva scritto di proposito: Borsellino è stato l’unico nome realmente citato”.

Tra gli intervenuti anche Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, che ha posto l’accento sulla visione troppo nazionale del fenomeno mafioso da parte dell’autore de “Il giorno della civetta”: “E’ stato un male non fare una distinzione tra la situazione nazionale e quella propriamente regionale”. Lo Bello approfondisce così l’analisi del problema: “Nel secondo dopoguerra vi è un cambiamento nell’Isola. Se il Paese da un lato è diviso, frantumato, dall’altro vi è la continuità della mafia; che, sì, è arcaica nella custodia delle tradizioni, ma è stata in grado di operare cambiamenti profondi al suo interno. Per questo è bene distinguere la situazione nazionale da quella regionale”.

Quanto al processo Andreotti, secondo Lo Bello non si è trattato di “un processo politico“, perché “vi erano dei dati che hanno provato certi comportamenti da parte del Senatore a vita di supporto alla mafia”. Lo Bello conclude che “bisogna fare una riflessione seria su questo processo. Esso non rappresenta né il successo del garantismo politico né la sconfitta dell’antimafia. Piuttosto mostra l’assordante silenzio tenuto dalla società siciliana”.

Parla invece di numeri Claudio Fava, che punta sull’effettiva pericolosità della mafia in quanto “impresa”. Secondo il deputato europeo, Cosa nostra non è più soltanto quella del narcotraffico; si è anzi evoluta sino a diventare la maggiore impresa internazionale con sede in Italia. “Guardando i dati del rapporto SOS Confesercenti vediamo che la mafia fattura 90 miliardi, dei quali 40 provengono direttamente dall’usura, dal racket, dall’abusivismo e dagli appalti. Solo dopo vi è la voce ‘narcotraffico’”. Il punto di forza di quest’organizzazione sta, secondo Fava, nel fatto che non si stupisce ormai di nulla: nessun evento riesce a sconvolgerla. Lo stupore è invece la grande debolezza della società civile: “Nel momento in cui smetteremo di stupirci, lì inizierà il vero declino della mafia”.

Fava continua ricordando che la mafia non è più quella dei latifondi, dei braccianti. Si è modernizzata ed ha messo radici nel mondo legale della società: i mafiosi non si appoggiano più ad intermediari, ma sono essi stessi medici, legali, deputati. Ma Lupo non è del tutto d’accordo con l’analisi citata da Fava: “Non si può parlare della mafia come impresa, semmai come settore economico. Basti pensare che essa stessa è nemica micidiale dell’impresa. Il principale metodo utilizzato è quello di proteggere dai danni che essa stessa produce”. La mafia, ricorda Lupo, si presenta come un rimedio omeopatico alla violenza; rimedio che non funziona, anzi alla lunga aggrava il problema. Secondo il docente, il sistema funziona perché esso non è mai stato meramente criminale; preferisce i settori legali da controllare con l’estorsione, la corruzione. La violenza è soltanto l’extrema ratio.

Un punto fondamentale della riflessione del professore è che “non si potrebbe ‘vedere’ la mafia se non vi fosse l’antimafia. Se non si conoscono i meccanismi e il funzionamento del contrario, non è possibile trovare e capire l’idea di ciò che si cerca. Se è vero che solo l‘antimafia rende visibile la mafia, ne consegue che per capire le emergenze della seconda non possiamo prescindere da uno studio della prima. Abbandonando la tesi che questo equivalga ad un conflitto tra “il bene ed il male”.

L’incontro, seguito da un pubblico numeroso, è stato organizzato dall’Istituto siciliano per la storia dell’Italia contemporanea (Issico) e dai Circuiti culturali dell’ateneo di Catania. A moderarlo è stato Luciano Granozzi, delegato ai Circuiti culturali e docente di Storia contemporanea.


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