DallAlbania a Israele, da New York a Kabul. Alfredo Macchi, inviato Mediaset, al Festival di Perugia spiega le regole del reportage e parla delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie
Macchi e il reportage da prima linea
«Il giornalista non cambia il mondo e non incide sulle cose che vede. Però aiuta a farle conoscere, con semplicità e chiarezza. Se non le raccontasse il reporter chi lo farebbe?». E’ questa l’idea che ha del giornalismo Alfredo Macchi, reporter di Mediaset e vincitore del Premio Ilaria Alpi 2009. Lo abbiamo incontrato al Festival di Perugia, dove ha curato il workshop “Il dietro le quinte del reportage”.
Nato a Sorengo (Svizzera), classe ’67, sogna di fare il giornalista da quando aveva 13 anni e c’è riuscito. Ha fatto l’inviato in zone di crisi. La forte corporatura – elemento essenziale per un inviato in zone di crisi, come sosteneva Kapuscinski – gli è stata molto utile e lo ha aiutato anche a sconfiggere la malaria. Nel ’99 è stato per oltre un mese a Kukes, in Albania, per raccontare l’emergenza profughi. Poi in Israele e in Cisgiordania, a New York per narrare il dramma dell’attentato alle Torri Gemelle, in Afghanistan e in tanti altri luoghi. Svariati i premi che ha vinto, tra cui nel 2002 “Giornalismo Saint-Vincent” per i servizi sugli orfani di Kabul.
Per Macchi il reportage costituisce «la più bella pagina del giornalismo». Cosa lo contraddistingue? «La capacità che deve avere il giornalista nel riportare con i propri occhi ciò che vede. L’essenziale sono la qualità delle interviste e non la quantità; il punto di vista personale e non la moda del momento». Non è detto che il reportage debba essere sempre frutto di un lungo viaggio: «Gli spunti e le idee si possono trovare anche vicino a casa, senza dover sconfinare nell’altrove». L’importante è il contenuto, la storia che si vuole raccontare. Bisogna partire da una regola d’oro, che non scade mai: «le cinque W, che valgono per tutti i formati del reportage, da quello scritto a quello cinematografico, da quello televisivo a quello fotografico».
Anche il reportage televisivo e quello fotografico, spiega il giornalista svizzero, «devono avere uno sviluppo narrativo come fossero articoli di giornale: con attacco, sviluppo della storia e conclusione. In Tv servono immagini forti ma che, per non annoiare, vanno montate in modo ritmato. Al ritmo si deve affiancare un contenuto interessante, semplice e chiaro. La bravura del reporter sta proprio in questo, ma anche nell’andare al cuore della vicenda senza scadere in frasi scontate».
Durante la lezione Macchi non si concentra solo sui contenuti. Spazia dai consigli su come piazzare il prodotto finito sul mercato, ai consigli tecnici su come usare la luce, la musica (che deve essere «basilare ma non casuale»), i camera car (i filmati degli spostamenti tra un luogo all’altro) e gli stand up, momenti in cui il reporter compare nel racconto, «di cui non si deve abusare». E infine, le tecnologie. «Queste ultime ormai ci vengono incontro. Basta essere muniti di una piccola videocamera digitale e un semplice programma di montaggio perché tutti possano realizzare un report. Ma un professionista deve far emergere le doti tecniche che distinguono il suo prodotto da quello di un citizen journalist». Ciò implica per il reporter «saper accettare suggerimenti e critiche da parte dei cittadini, che possono contribuire al suo lavoro, ma vuol dire anche essere più accurato e rispettoso nei loro confronti» perché ormai, essendo più informati, dal professionista si aspettano molto di più.
Il workshop si conclude con la visione delle foto scattate in scenari di guerra – in cui Macchi lavora da anni – e con la proiezione di “Morire per vivere“, il documentario vincitore del “Premio Ilaria Alpi 2009”. Poche le parole ma tante le immagini significative – nude e crude – sul dramma dei ragazzi che scappano dalla Grecia per trovare rifugio in Italia, dove spesso ad aspettarli c’è una polizia che li picchia per poi rimandarli indietro. Da qui scaturiscono le domande della platea a cui Macchi risponde tornando al concetto iniziale: il giornalista non cambia il mondo. A volte però «può contribuire a modificare in meglio i finali scontati di certe storie di miseria, emarginazione e violenza».
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