Lou Reed, un anno dopo…

Vi sono artisti che la morte l’hanno cercata, altri (pseudo artisti, in verità) che l’hanno usata in maniera ammiccante (anche questo aumenta il conto in banca), altri, pochi in verità, c’hanno dialogato, e magari sfiorandola senza alcun desiderio di raggiungerla.

Uno di questi è Lou Reed. Nella sua lunga discografia vi sono due opere, due “concept disc”, che la trattano, ne parlano a viso aperto. Personalmente preferisco la seconda: Magic and loss (magia e perdita), dedicata a due amici morti di cancro, e i cui testi sono un classico, nel senso che descrivono una realtà che potrebbe avere luogo dappertutto, laddove vedi due persone spegnersi progressivamente, mentre la loro e tua volontà vorrebbe fortissimamente ben altro destino. In Magic and loss, oltretutto, vi sono dei picchi verbali ove parlare di poesia non è affatto fuori luogo. L’altro disco che illustra una situazione contenente l’ultimo attimo è Berlin: ci troviamo qui di fronte a qualcosa di molto più contestualizzato.

 

Dal luogo, una Berlino ancora divisa dal muro (è il 1973, e Reed non vi era ancora mai stato) ai protagonisti, una coppia di junkies di cui viene descritto l’ultimo declino. Eppure, eppure…Berlin ha qualcosa di particolarissimo, che lo rende disco unico ed inimitabile. Criticato al tempo da più critici e giornali, il tempo gli ha dato poi ragione. Il disco viaggia su atmosfere ed energie “sottilissime” e fa percepire benissimo il dramma d’un declino totale, è pervaso da una decadenza spoglia, celebrata nella sua accezione più pura, senza lasciare spazio ad alcun ammiccamento. Berlin ha la capacità di metterti davanti la morte senza fartela abbracciare o venirne catturato e men che meno sedotto: sei lì, il resto del mondo scompare e hai la possibilità di vederla nuda, senza formulare giudizio, quasi ti fosse data la possibilità di farne una foto senza filtro alcuno (del dolore, dello spavento o che sia). Credo sia questo, alla fin fine, quel di più che fa di Berlin qualcosa che va “oltre”, associato alle sue “energie sottili” e una musica come si conviene, ricca negli strumenti ma essenziale negli arrangiamenti, ed ancor più nuda mi sarebbe piaciuto fosse.

 

Ed ora, a più di trent’anni di distanza, Reed ha portato per la prima volta completamente sul palco questa opera. Se nel corso di questi decenni Caroline says II ha regalato brividi nelle platee, se Oh Jim ha dato esempio di dove può arrivare il rock, l’opera completa dal vivo era sogno di moltissimi, non solo dei suoi fans. La musica è riarrangiata, in funzione della trentina di persone che la eseguono: un coro di voci bianche e due sezioni (una d’archi e l’altra di fiati) della London Symphony Orchestra, l’ottima voce solista di Katie Krykant, una sezione ritmica di primo piano – il drummer Tony “ Thunder “ Smith e il basso di Fernando Saunders – il contrabbasso di Bob Wasserman e, dulcis in fundo, il chitarrista originale di Berlin: Steve Hunter, virtuoso per eccellenza.

 

L’operazione, di per sé rischiosa, di adattare la musica in virtù dei tanti esecutori è cosa che è riuscita appieno. Passaggi lievissimi del coro di voci bianche, momenti di rara intensità rock, rafforzati dall’energia dei fiati, la voce di Lou, gli assoli acustici… tutto si armonizza a meraviglia e tutto trova la propria collocazione senza calpestare o invadere nulla. Dal vivo Berlin acquista parecchio come vigorosità, lasciando fuori i rari attimi un po’ leziosi che la produzione di Bob Ezrin aveva impresso alla versione in studio.

“In Berlin, by the wall, with the iced Dubonnet, it was so nice…honey, it seems paradise”…il film di Julian Schnabel, rappresentazione di Berlin, scorrendo alle spalle del palco fa da sfondo a Lou quando questi inizia il concerto, pronunciando le parole che aprono questa frase. Ed allora il teatro si zittisce, e così sarà per tutto lo spettacolo… Una Men of good fortune ben più corposa dell’originale, con la tromba che sul finale la fa decollare ulteriormente, una Oh Jim dove gli intrecci, il crescere delle chitarre ci mette davanti agli occhi esecuzioni che finora avevamo sentito solo su bootleg mitici riportanti un concerto di Stoccolma del 1974, e più volte sognato…Caroline says II, l’essenziale reso sublime, introduce a brani come The bed, un sussurro nel buio…e poi la finale Sad song ove tutto riprende corpo.

 

Questa l’esecuzione dell’album, ben più lunga rispetto alla versione originale. E poi tre bis, tre brani che altre volte Reed aveva eseguito più per accontentare il pubblico che per altro. Stavolta no, non è così: la presenza di Steve Hunter alla chitarra riporta alle atmosfere di Rock’n’roll animal, Satellite of love sembra veramente un satellite e apre alla finale Walk on the wild side (brani che tanti conoscono senza saper di conoscere), convincente e con un sassofono che rimanda alle magiche atmosfere di Transformer, uno dei suoi dischi capolavoro.

Essersi persi i concerti di questo tour è cosa che capita, rinunciare a priori al cd e dvd che ne verranno pubblicati è cosa che vi sconsiglio.


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