«L’inchiesta ha un futuro. Anche a Catania»

Il giornalismo investigativo prende molto tempo ai giornalisti e parecchio denaro agli editori. È quindi uno dei generi che incontra maggiori difficoltà, soprattutto in Italia, a causa della crisi economica che sta investendo i giornali, ma anche perché chi lo fa scopre misfatti per mestiere e dà fastidio agli occulti poteri politici, mafiosi e imprenditoriali. C’è però chi ancora riesce a fare inchieste nel nostro paese, come Lirio Abbate, che su l’Espresso di questa settimana co-firma un’inchiesta sulla nostra città (Catania connection). Noi lo abbiamo intervistato a Perugia in occasione del Festival internazionale del giornalismo.

Quali sono i capisaldi del giornalismo investigativo?
«Innanzi tutto si deve partire dal fatto che il giornalismo investigativo nasce da una notizia originale, che non è stata raccolta da inchieste giudiziarie o da atti di investigatori, ma che il giornalista o il pool di giornalisti riesce a individuare. Quindi si mettono in risalto vicende nuove, fatti che interessano la gente e che vanno a discapito della comunità. Poi, è importante la precisione. Le situazioni devono essere documentate. Il giornalista si sostituisce all’investigatore della polizia giudiziaria. Purtroppo, tutto ciò non è frequente in molti giornali italiani, perché per fare questo tipo di inchieste si devono dedicare due o tre giornalisti che vengono distaccati per quindici, venti giorni dalla redazione e non tutti gli editori sono disposti a “sprecare” dei soldi per far assentare il giornalista, visto che oggi si cerca di sfruttare il proprio redattore ogni minuto, facendogli fare i titoli, le impaginazioni e tutto quanto il resto, senza farlo andare a cercare quella che è la notizia originale».

È questa la ragione per cui sempre più spesso questo tipo di inchieste si leggono sui libri, piuttosto che sui giornali, e ancor più raramente si vedono in TV?
«Sì, farle sui libri e sui saggi dà più tempo al giornalista per indagare e molta più libertà. Parlando della mia esperienza – io sono all’Espresso da meno di un anno – posso dire che L’Espresso è una delle poche testate in Italia che riesce a fare giornalismo d’inchiesta, cioè portare allo scoperto delle notizie che sono di interesse pubblico e in seguito alle quali gli investigatori avviano delle indagini, perché si mettono in evidenza non solo dei fatti che sono moralmente e socialmente rilevanti, ma anche delle vicende che lo sono penalmente. Un esempio può essere l’inchiesta giudiziaria sulla Protezione Civile, fatta a Firenze, che ha riguardato Bertolaso e l’arresto di alcuni imprenditori. Quell’inchiesta l’aveva fatta un anno prima L’Espresso in diverse puntate, raccontando tutto quello che accadeva alla Maddalena, come venivano eseguiti i lavori, e gli interessi nascosti degli imprenditori. Gli investigatori giudiziari hanno seguito quello che il giornale e il pool di giornalisti aveva riportato su quei fatti. Altri giornali, purtroppo, non riescono a fare questo lavoro per una questione economica. Gli editori non vogliono sforzarsi e investire su questo tipo di giornalismo».

Oltre alle difficoltà economiche, quali sono gli ostacoli che il giornalista investigativo incontra in Italia?
«Nel numero dell’Espresso di questa settimana trovate un reportage su Catania, che ho fatto insieme al collega Gianfranco Turano, in cui raccontiamo la città e molti intrecci e situazioni che ancora giudiziariamente non sono emersi e che la stampa locale o quella regionale non racconta. Parliamo anche di questa stampa e del suo editore (Mario Ciancio, ndr). È uno dei pochi lavori del genere fatto su Catania, anche se è difficile pensarlo, soprattutto su cartaceo. Bisogna capire perché. Noi abbiamo cercato di spiegarlo, raccontando anche gli interessi dell’editore della Sicilia e di quello che magari non fa scrivere sul proprio giornale, quando poi pubblica dell’altro. Per esempio, la cosa eclatante è che non abbia fatto pubblicare dei necrologi di persone uccise dalla mafia, come Pippo Fava e Beppe Montana, ma non si è fatto scrupoli a pubblicare una lettera di un boss detenuto al 41 bis (Vincenzo Santapaola, ndr). Raccontiamo anche che il presidente della più grossa associazione di autotrasportatori della Sicilia orientale è un certo Ercolano, incensurato ma nipote di uno dei più grossi capi mafia della città (Giuseppe Ercolano, detto Pippo, e cugino di Aldo, mandante dell’omicidio Fava, ndr). È come se alla figlia incensurata di Riina venisse affidato un progetto legalità o al nipote di Schiavone a Napoli il recupero dei rifiuti. Ma nessuno si indigna e solleva il problema».

Qualche tempo fa, il giovane Ercolano è stato anche presentato come esempio di imprenditoria siciliana e gli è stata dedicata la copertina di una rivista.
«Dossier Sicilia, un inserto del Giornale. Fa anche parte della Confcommercio. E mi sorprende che nemmeno il presidente della Camera di commercio di Catania, Piero Agen, si sia stupito e abbia sollevato il problema, perché lo vedo scrivere spesso di come Catania si debba ribellare, però nei fatti è il contrario».

Forse sono convinti che sia realmente un buon esempio di imprenditoria giovanile, dal loro punto di vista.
«Probabilmente. È un giovane imprenditore, ma bisognerebbe chiedersi se con uno che si chiama Ercolano, anche se incensurato, un autotrasportatore che subisce pressioni dalla mafia possa mai andare da lui a chiedergli “guarda che alcune persone che sono presunte affiliate al clan di tuo zio mi fanno delle pressioni, come posso reagire?”. Per tornare su Catania, ricordiamo che per anni c’è stata una Procura manipolata da un gruppo di potere della città e da alcuni magistrati che influenzavano correnti della magistratura. Oggi si sta un po’ risvegliando e si vede anche con l’inchiesta sul presidente della regione. Bisogna, però, capire se è un risveglio o qualcos’altro. Ci sarebbe molto da studiare su Catania e fare giornalismo investigativo a livello nazionale, oltre che locale».

Che consigli daresti a degli apprendisti giornalisti che vogliono fare giornalismo investigativo a Catania?
«Innanzitutto trovare una testata in cui si può fare e se non ce ne sono di tradizionali, il web è una delle soluzioni. Iniziare a far ragionare la testa e avere il contatto diretto con la gente e con il territorio, perché proprio da lì arrivano le notizie originali. Cercare di capire perché ci sono, ad esempio, speculazioni edilizie in un certo luogo, affidate soltanto ad alcune imprese. Voi che siete giovani dovete utilizzare gli strumenti tecnologici, le visure camerali, le analisi delle società, dei bilanci, cioè tutta una serie di carte e documenti dietro le quali si nascondono sempre gli intrecci e le coperture, non dico solo di mafiosi, ma di imprenditori e affaristi che saccheggiano la città o hanno altri affari. Per esempio, attraverso le visure camerali a volte si scoprono i soci di alcune imprese e i collegamenti tra questi soci e mogli o figli di politici che finanziano certe opere che sono inutili e che proprio a queste imprese sono affidate».

Tu sei stato minacciato a causa dei misfatti che riveli. Qual è il tuo principio guida? Cos’è che non ti fa mollare?
«Il fatto che c’è molta gente che crede in quello che riesci a trasmettere quando scrivi su determinate cose. Perché sono convinto che la forza delle parole e il racconto di molti fatti, che restano purtroppo a lungo coperti dalla polvere, possano dare una luce e le persone con quella luce possono vedere e capire altro. Insomma, il mio lavoro è un contributo alla legalità. Molte volte ci diciamo cosa si può fare per sconfiggere la mafia, per cercare di combattere l’illegalità, e io dico quello noi possiamo fare, quello che voi potete fare, cioè ognuno può dare un piccolo contributo. Intanto quello del giornalista di raccontare certe situazioni, dar loro risalto, che è già un passo avanti rispetto all’ombra e al buio che, ad esempio, su Catania da decenni si continua a mantenere».


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