Libertà senza tempo

Il silenzio. Per quanto io rifletta e cerchi, non riesco a trovare commento più appropriato per il capolavoro di Sean Penn. Il silenzio cieco e sordo, attonito, della sala gremita fino a scoppiare. Un silenzio estatico e catartico, profondo come le ultime battute e le ultime sequenze di una pellicola irripetibile, immensa, in cui parole, immagini, note musicali si sciolgono in un affresco semplice e colossale allo stesso tempo. Tutto il resto sono soltanto espressioni e giudizi d’ufficio, inevitabilmente riduttivi e macchinosi.

Into the Wild racconta la storia “vera” di Christopher Mc Candless, già splendidamente riportata dal romanzo-reportage di John Krakauer. È la storia di un ragazzo borghese e benestante che, ottenuta la graduation decide di abbandonare tutto e tutti (genitori, denaro, identità) e di mettersi in viaggio verso la “Natura selvaggia”, alla ricerca di se stesso e di quella “Verità” che crede fino a quel punto gli sia sfuggita. Egli è stato già definito un moderno San Francesco ed un nuovo Sal Kerouachiano ma noi preferiamo descriverlo attraverso le sue stesse parole, un «estremista ed un viaggiatore esteta». Forse vi interesserà sapere che il viaggio di Chris, ribattezzatosi “Alex Supertramp”, è allo stesso tempo una fuga ed una ricerca, un rifiuto ed una scoperta, un procedere a tratti goffo ed impacciato, a tratti fermo e determinato verso una presa di coscienza, accuratamente scandita dalla divisione del film in capitoli; una presa di coscienza che passa attraverso innumerevoli luoghi ed incontri, avventure e conoscenze. Chris entra a contatto con numerosi personaggi e con ognuno di essi stabilisce un rapporto dialettico di innaturale genuinità, che porta costantemente ad una messa a nudo totale dei due interlocutori.

Lo stesso rapporto che egli cerca con la natura, con la pietra “cieca e sorda”, nel tentativo di recuperare uno stato interiore primigenio ed incontaminato, libero dalle costrizioni e dai condizionamenti sociali, dalla falsità degli uomini e dei loro rapporti («Io non capisco perché la gente è così cattiva col prossimo così spesso»). Forse vi interesserà sapere che il regista ha evitato accuratamente di mitizzarne la figura e di trarre sentenze, che per tutta la trama egli rimane semplicemente un “uomo”, tratteggiato attraverso i sui gesti e le sue parole e contemporaneamente attraverso la rievocazione del suo tormentato passato, della sua giovinezza macchiata dall’egoismo dei genitori, insensibili ed incapaci di regalargli l’affetto incondizionato di cui aveva bisogno. Forse vi interesserà che il suo viaggio lo porta in Alaska per otto mesi a contatto con la natura. Forse vi interesserà sentir parlare della tecnica di ripresa e montaggio, che fonde insieme paesaggi ariosi e spaziosi con intensissimi primi piani, come a sottolineare continuamente il legame tra uomo e natura. Ma in realtà tutto questo poco importa. Quello che importa è che Chris Mc Candless è inevitabilmente diventato uno dei piccoli, grandi profeti del nostro secolo, il portatore di valori tanto estremi, idealistici e disincantati, quanto mai autentici ed incontaminati. Come un figuro dantesco, questo ragazzo di vent’anni si mette in cammino alla ricerca di qualcosa che sta al di sopra di lui, alla ricerca di se stesso, e come il protagonista della Commedia guardando se stesso troverà molto di più; troverà il senso dell’amicizia, del rispetto, il valore dei rapporti umani, troverà il profumo dell’umanità, il senso di quella società che tanto disprezza e perfino di Dio, in un ultimo dialogo mozzafiato con il vecchio Ron Franz, magistralmente interpretato da Hal Holbrook.

Ma, a differenza di Dante, il viaggio di Chris non si sviluppa per alti e bassi, discese ed ascese, ma è un procedere costantemente orizzontale attraverso il mondo nudo e crudo, alla ricerca dell’annullamento completo della sovrastruttura ideologica che quotidianamente “ci” schiaccia ed affligge, nel tentativo di raggiungere una libertà non solo materiale ma assoluta. Ed ecco alla fine di questo “viaggio” il profeta Chris capirà che forse per riscoprire l’autenticità ed il valore della nostra vita, dell’amicizia, dei rapporti umani, dell’affetto, dell’amore, dobbiamo semplicemente smettere di dare tutto per scontato, dobbiamo perdere e rinunciare a tutto per poi recuperarlo più splendido di prima, evitando di commettere il grande errore di arrivare a questa comprensione troppo tardi. A questo punto il film si conclude, con l’ultima frase, «Happyness is real only when is shared», che è un ribaltamento ideologico totale, il ricongiungersi del cerchio e che suggella la morte-catarsi, di un giovane ragazzo che come tanti giovani ragazzi nella storia ha deciso ad un tratto di chiudere gli occhi e buttarsi dietro una cometa, solo per potersi dire fiero di aver vissuto questa vita. Ed io mi sento di dedicare a Chris Mc Candless tutto quell’assordante silenzio della sala, che vale molto più del più scrosciante degli applausi. Applauso da dedicare ad un’esistenza e ad un’opera cinematografica sulla quale si possono emettere i più disparati giudizi, ma nei confronti della quale non si può rimanere indifferenti.


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