L’esperienza condivisa di Goor

goor – trailer ufficiale. from goor | uomo on Vimeo.

“Uomo”. Questo è  il significato della parola senegalese goor, che dà il titolo al nuovo progetto de la.mu.s.a. Il film è un contemporaneamente un documentario e una fiction ed affronta il tema dell’immigrazione e dell’integrazione razziale. Attraverso la regia di Alessandro De Filippo, viene rappresentato un ipotetico viaggio della speranza. La telecamera è finzione, mentre le sofferenze, il freddo sono reali.

Alessandro, da dove nasce il progetto goor?
«Nasce da una ricerca durata 6 anni, uno studio pieno di errori, un percorso fatto di vicoli ciechi. Insieme ad Alioune Badara Gueye, mio fraterno amico, abbiamo discusso a lungo sulle possibilità che il cinema avesse di raccontare il fenomeno dell’immigrazione senza inciampare nei luoghi comuni. Eravamo entrambi scettici e più passava il tempo e aumentavano i tentativi di scrittura del progetto, più questo scetticismo cresceva. Finché ci siamo arenati definitivamente. Abbiamo capito proprio che il cinema non ne era capace. E allora abbiamo provato a raccontare la nostra incapacità di raccontare un fenomeno così complesso come quello dell’immigrazione. Abbiamo spostato il centro dell’attenzione su di noi, sul nostro essere incapaci».

Come è stato finanziato?
«Il finanziamento è arrivato dalla Comunità Europea, fondi F.E.I. (Fondi europei per l’integrazione di cittadini provenienti da paesi Terzi), ma il budget è transitato dal Ministero dell’Interno, che lo amministra. Il nostro è stato l’unico progetto del genere a essere finanziato da Roma in giù».
 
Entrando nell’ambito tecnico, cos’è goor? Quanto si può parlare di finzione, quanto di realtà?
«Da enrico ghezzi (minuscolo) io ho imparato questo, che tutto il cinema è finzione e tutto il cinema è documentario. Se io scelgo un punto macchina, opero una selezione, decido di inquadrare qualcosa e di lasciare fuori tutto il resto. E quindi, quando compongo l’inquadratura, faccio fiction. Però filmo persone reali, anche se sono attori che interpretano personaggi. Persone reali che respirano, sudano, tossiscono e invecchiano. Invecchiano ogni secondo che passa, davanti alla camera. E allora faccio documentario, anche se giro una scena d’amore ripetuta 35 volte, sempre uguale a se stessa, sempre uguale a un copione stupido e fasullo. Ecco, il cinema vive di questa aporia, di questo essere tutto fiction e tutto documentario nello stesso momento».
 
Tra i venti immigrati protagonisti di goor qualcuno ha vissuto in passato l’esperienza del ‘viaggio della speranza’ dall’Africa all’Europa? Quali sensazioni ed emozioni hanno provato durante le riprese?
«No. Nessuno. E la cosa bella è proprio questa, non solo nessuno dei partecipanti stranieri al progetto ha vissuto questa esperienza del barcone e del viaggio della speranza, ma non conoscono neanche un amico o un conoscente che l’abbia vissuta. Questo mette in evidenza un dato: il 95% dei migranti arriva in Italia in aereo con un visto temporaneo di studio o turistico o di affari. Del 5% restante che arriva con il barcone, il 70% ottiene lo status di rifugiato politico. A occhio e croce diciamo dunque che tutto il bombardamento televisivo degli sbarchi e dell’invasione barbarica dei clandestini riguarda un numero non superiore al 2% degli arrivi… di cosa stiamo parlando? Di cazzate. Letteralmente i telegiornali stanno truffando gli spettatori, per motivi politici, per motivi economici. È una sapiente costruzione narrativa, un racconto a puntate, un serial tv che gioca con la disperazione reale di persone del Sudan, di persone dell’Eritrea, di persone della Somalia. Di persone, punto e basta, si gioca con la disperazione di persone, non di numeri e di percentuali. Allora mi chiedo: cui prodest? A chi giova questo “stato di paura”? Chi se ne avvantaggia dal punto di vista elettorale, politico, di consenso? La fiction è stata girata durante 28 ore di riprese continuative, sul barcone, in mare aperto. Tutti (tecnici e interpreti) hanno subito il freddo, la pioggia, il maldimare. Abdoulah Jourairi, che è stato uno dei mediatori culturali e che ha girato tutta la sequenza seguendo anche le restrizioni del ramadan, si chiedeva quanto potesse essere terribile per chi si trova davvero in quella situazione di disagio per settimane intere».

Per la sua realizzazione è stata necessaria una stretta collaborazione tra attori immigrati e tecnici italiani. Di quale messaggio si fa portavoce goor?

«Di nessun messaggio. I messaggi li portano i postini. goor è un’esperienza condivisa, di persone che hanno vissuto insieme un’esperienza. Niente di più e niente di meno».
 
Come è nata la sceneggiatura del film?
«Anche la sceneggiatura è il frutto di una condivisione. È il risultato di un confronto, che è durato per tutta la fase del laboratorio prevista dal progetto (40 ore). Abbiamo discusso insieme, ci siamo confrontati. Abbiamo visto documentari di altri autori, discutendo di ciò che ci piaceva e ci interessava e di ciò che rifiutavamo. La sceneggiatura viene dagli incontri e dagli scontri di tante personalità diverse e da differenti identità culturali. Mi piace pensare che la sceneggiatura di goor sia più figlia del conflitto, piuttosto che del compromesso».
 
Goor è stato girato interamente a Catania?
«La parte documentaria sì. La lunga sequenza di fiction è stata invece girata sulle coste del ragusano. Abbiamo dovuto chiedere per questo autorizzazioni alla Capitaneria di Porto di Pozzallo, alla Questura di Ragusa e alla Protezione Civile di Punta Secca (frazione di Santa Croce Camerina). Il giorno prima e tre giorni dopo le nostre riprese, sulle stesse spiagge si sono verificati due sbarchi reali. E durante le nostre riprese, mentre eravamo al largo, si è avvicinato un gommone della Protezione Civile di Scoglitti (frazione di Vittoria), che temeva si trattasse di uno sbarco reale. Abbiamo le riprese del comandante del nostro peschereccio che urla: “simulazione! simulazione!”. Le spiagge di Scoglitti, di Punta Braccetto e di Punta Secca sono l’obiettivo naturale di chi “manca” l’approdo a Lampedusa, sono purtroppo le spiagge dei naufragi, dei cadaveri restituiti dal mare. Siamo partiti da questo dato di realtà, che si è depositato nell’immaginario comune di quei luoghi. Che poi sono gli stessi luoghi del Commissario Montalbano e della sua fiction riconciliata e serena».
 
Questa iniziativa ha posto in essere una collaborazione tra l’Università ed il Comune, nella fattispecie l’Assessorato alla Famiglia. L’integrazione tra le Istituzioni può favorire quella tra i popoli?
«Credo che certe volte sia più difficile parlare tra le Istituzioni, che tra popoli differenti. L’assessore Marco Belluardo e il suo staff di Casa dei Popoli (Progetto Immigrati) però sono stati estremamente collaborativi e, per me, è stata una piacevole sorpresa, discretamente informali. In questo caso sono stato io personalmente a superare alcuni pregiudizi e luoghi comuni sulle amministrazioni locali. Credo che alla fine siano sempre le persone a fare la differenza».
 
Il progetto goor quali obiettivi si pone nel medio e nel lungo periodo? Rientra in un progetto di più ampio respiro che coinvolge in maniera più diretta la.mu.s.a?

«L’obiettivo è quello di far discutere e ragionare sul tema dell’immigrazione non solo in termini di “problema sociale” o, peggio, “problema di ordine pubblico”. Mi aiuto con un concetto ancora una volta ghezziano: un tema così importante deve essere discusso come campo di differenze. Certo la.mu.s.a., che ha già realizzato Isola e Cattura, sulla realtà carceraria di Catania Bicocca, che adesso ha appena chiuso goor e che si accinge a pre-produrre un documentario sulla Sicilia di Ugo Saitta, cerca sempre un punto di vista inconsueto sulla nostra realtà territoriale. Mi interesserebbe molto raccontare anche una storia dell’Antico Corso, che riguarda un giovanissimo transessuale che si confronta quotidianamente con il machismo e i pregiudizi del quartiere. Ne stiamo parlando proprio in questi giorni. E ho già un titolo che mi piace moltissimo, Felice».


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