Il fenomeno delle donne legate a uomini in carcere spopola su TikTok. Video e dirette in cui difendono i loro «leoni» a cui augurano una «presta libertà». Alcune sono diventate influencer. «Alto è il rischio di emulazione», dice il sociologo Francesco Pira
Le tiktoker che sfoggiano la fedeltà ai compagni detenuti «Vetrina della quotidianità pericolosa per i più giovani»
Cuori e catene, insieme. Sono le emoji più utilizzate per mostrare l’amore indissolubile delle donne siciliane nei confronti dei loro mariti, compagni o fidanzati carcerati. Di recente su TikTok il fenomeno è esploso e si è creata una sorta di comunità spontanea attorno a quelle diventate più influenti. Anzi, vere e proprie influencer. Spesso invitate a inaugurare negozi di quartiere e a sponsorizzare attività commerciali locali soprattutto di ristorazione, di pulizia della casa, di abbigliamento e di estetica. «È la tendenza a una democratizzazione del privato che diventa pubblico – spiega a MeridioNews Francesco Pira, professore associato di Sociologia all’Università di Messina che ha analizzato le dinamiche dei social anche legate alla criminalità – La vetrinizzazione del quotidiano è ormai un atteggiamento non solo delle star ma anche delle persone comuni che sui social network condividono spazi e azioni». Ognuno mostra, in parte, la propria vita di tutti i giorni.
Ci sono donne adulte che aspettano da anni mariti con cui hanno una nidiata di figli; giovani ragazze che mostrano con orgoglio di restare fedeli ai fidanzati finiti da poco dietro le sbarre. Per alcune l’attesa è relativamente breve, per altre servono ancora molti calendari su cui segnare le x per indicare i giorni del lungo conto alla rovescia. Loro sono rimaste in case, in molti casi in stile più che barocco e dalle nuance dorate, che esibiscono con orgoglio nelle decine di video che postano ogni giorno. L’argomento è sempre e solo uno ma declinato in vari modi: mostrano il passato, con foto che ricordano momenti vissuti insieme a partire dagli album dei sontuosi matrimoni, e il presente fatto di attese e viaggi per i colloqui – con video girati anche proprio davanti ai cancelli del carcere – videochiamate, preparazione dei pacchi, difficoltà burocratiche e legali. E immaginano il futuro di nuovo insieme difendendo a denti stretti i loro «leoni» finiti in carcere per reati che non vengono svelati quasi mai, forse anche per incuriosire ancora di più le migliaia – e anche centinaia di migliaia – di follower. E spesso, per non aumentare il numero degli haters, ammettono che i loro uomini sono dietro le sbarre perché «stanno pagando il loro debito con la giustizia».
«Una situazione che dall’esterno può sembrare straordinaria ma che, per loro, è quotidianità da trasformare in spettacolo – commenta Pira – Probabilmente molte di loro non hanno contezza di mettere online contenuti particolari perché è la loro normalità». E tutto viene normalizzato. «Il pericolo che scorgo io – sottolinea l’esperto – è l’effetto che questo può avere sui più giovani, anche preadolescenti, che sono i maggiori frequentatori di TikTok. Il rischio è che possano mitizzare e cercare di emulare quello stile di vita che mostra anche una certa remissività da parte delle donne nei confronti dei loro compagni». Il ruolo delle donne all’interno delle organizzazioni criminali si è evoluto insieme a loro. «Non ho memoria di donne che abbiano sfoggiato di avere tradito gli uomini detenuti – ricostruisce il docente di Sociologia – La fedeltà nei confronti di chi era in carcere era una scelta obbligata, dovuta. Fermo restando che, negli ultimi anni, anche le narrazioni delle mafie parlano di donne emancipate che prendono il comando in sostituzione di chi pur non potendo stare alla guida manda segnali dal carcere». Dai pizzini di Provenzano alle videochiamate pubblicate sui social il passo non è lungo. «Questa tendenza a esporsi e, in particolare, a creare contenuti per esaltare l’amore indissolubile – sottolinea Pira – fa parte di una strategia comunicativa che è l’evoluzione delle grandi manifestazioni esterne del passato. L’obiettivo è comunque mostrare un senso di potenza».
Il tempo e l’organizzazione delle loro vite è scandito dai colloqui che, per chi è relativamente vicino, hanno anche cadenza settimanale. I giorni precedenti sono tutti vissuti – e condivisi – in funzione di ciò che bisogna portare all’incontro, di come è meglio vestirsi, truccarsi, pettinarsi. Chi, invece, è più lontano per andare così spesso a fare visita al congiunto carcerato, si concentra sulla preparazione dei pacchi da inviare: cibi a lunga conservazione, carne di ogni tipo sottovuoto, vestiti con marche bene in vista. Un po’ come strizzare l’occhiolino a future sponsorizzazioni. «Il fatto che diventino influencer è preoccupante – analizza l’esperto – Mi chiedo quale sia il motivo che spinge un’azienda a cercarle come testimonial di un prodotto o di un’attività. E quale sia il concetto che vogliono esprimere tramite quel brand, considerando che vivono di luce riflessa rispetto all’attività criminale del loro partner. In poche parole – continua – perché un’attività commerciale dovrebbe rilanciare l’immagine di una donna costruita sulla base dell’essere la compagna, la moglie o la fidanzata di qualcuno che ha commesso un reato?».
Del resto, dai loro profili non emergono molte altre caratteristiche. C’è chi di recente sì è attirata critiche mostrando il figlio minorenne (un bambino di quattro anni, nato quando il padre era già in carcere) scoppiato in un pianto singhiozzante per la mancanza del genitore. Chi ha comunicato di essere in dolce attesa prima ai follower che al marito, con cui avrebbe dovuto aspettare il giorno fissato per il colloquio. E chi ha partorito l’ultimo figlio pochi giorni prima che il marito finisse detenuto di nuovo per un lungo periodo. «La prima volta che lo hanno arrestato, lo hanno trovato per colpa mia. Eravamo fidanzati da pochi mesi, io avevo sedici anni. Sono andata a trovarlo e le forze dell’ordine mi hanno seguita», racconta una donna che, per un periodo, ammette di avere coperto la latitanza dell’allora fidanzato (oggi marito), andando a portare i viveri in un casolare di campagna in cui si nascondeva. «È innegabile che il crimine abbia sempre avuto un certo fascino – fa notare Pira – In questo caso, si unisce alla possibilità di spiare le vite degli altri dal buco della serratura». Per i più curiosi ci sono anche delle affollatissime dirette, spesso notturne, attorno alle quali si è creata una specie di comunità spontanea in cui le veterane forniscono informazioni, chiariscono dubbi e si mettono a disposizione come una sorta di disbrigo pratiche. L’attenzione a eliminare i profili falsi è quasi maniacale anche perché, in alcuni casi, qualcuna si lascia sfuggire particolari – tipo che al carcere di Caltagirone qualcuno è riuscito a introdurre un cellulare – che sarebbe meglio non rendere pubblici. Le altre la riprendono immediatamente. Tutte terminano con un augurio di «presta libertà a tutti i detenuti».