Le borse delle detenute nei negozi tolti alla mafia Ilaria Venturini Fendi e l’alta moda sostenibile

Ridare dignità agli scarti. È così che da materiali imperfetti un gruppo di detenute ha realizzato delle borse destinate all’alta moda e ora in vendita a Palermo nei negozi Bagagli: quegli stessi punti vendita prima confiscati alla mafia e poi sottratti ad amministratori giudiziari coinvolti, insieme a diversi magistrati, nell’inchiesta sul caso Saguto. Un doppio riscatto che ha permesso di unire moda ed etica, lavoro pulito a economia sostenibile, creando un’alternativa possibile a persone e materiali. A realizzare questo connubio è stata la stilista Ilaria Venturini Fendi, ideatrice del marchio di design sostenibile Carmina Campus che reinterpreta fondi di magazzino o difettati per produrre borse, mobili e accessori dal design contemporaneo attraverso manifatture di alto artigianato. 

È in questo ambito che è nata la collezione Made in Prison realizzata in collaborazione con SociallyMadeinItaly che raggruppa una serie di cooperative sociali attive nel reinserimento dei detenuti. Il progetto ha ricevuto il marchio Sigillo dal ministero della Giustizia e, al momento coinvolge, le carceri di Piazza Lanza a Catania, Bollate e San Vittore a Milano e Santa Maria Maggiore a Venezia, ma all’orizzonte ci sono altre collaborazioni in vista, come quella con la sezione femminile del carcere Pagliarelli di Palermo. «L’obiettivo è creare opportunità di lavoro per i detenuti utilizzando il know how degli artigiani di Carmina Campus – spiega Ilaria Venturini Fendi – ma anche contribuire a una rigenerazione dell’economia. L’etica è tutto». 

Principi che hanno portato la stessa stilista, figlia di Anna, una delle cinque sorelle Fendi, a una scelta coraggiosa: «Nel 2003 ho lasciato il mondo della moda e l’azienda di famiglia e sono ripartita da zero, cambiando completamente stile di vita e facendo l’imprenditrice di un’azienda agricola alle porte di Roma». Una metamorfosi che le ha permesso presto di «abbinare sociale a ecostenibilità, tornando a quella componente creativa che ha fatto parte del mio dna». Da qui le prime collaborazioni con l’International trade center, agenzia delle Nazioni Unite e con alcune ong in Africa. Poi la scelta di investire su lavorazioni artigianali made in Italy favorendo il reinserimento delle detenute, con la collaborazione del gruppo Sociallymadeinitaly e il marchio Sigillo del ministero della Giustizia che garantisce il rispetto dei contratti sindacali di categoria.

«Su 2315 donne detenute in 15 penitenziari sparsi in tutto il territorio nazionale, quelle ammesse al lavoro sono 68 – spiega Caterina Micolano, portavoce di SociallymadeinItaly – di cui 62 sono quelle seguite dal nostro progetto, in pratica il 95% del campione. In termini assoluti sono piccole cifre, purtroppo la donna paga lo scotto di essere una minoranza anche all’interno di una istituzione pensata per gli uomini. Se il ministero confermerà il suo sostegno, i penitenziari coinvolti saliranno da 4 a 11. La sfida è insegnare a cucire in modo professionale per il mercato dell’alta moda, in questo modo si contribuisce davvero a una drastica riduzione delle recidive».

Ed è stato grazie all’intuizione e alla tenacia di Ilaria Venturini Fendi che quelle borse sono finite alla fashion week di Pechino, sui mercati del Giappone, tra lo stupore delle detenute. «Le borse Made in Prison sono 600 a stagione – spiega la stilista – per questa collezione abbiamo utilizzato le coperte dismesse del carcere, cascami di pellicceria e fodere campionarie». All’interno del distretto produttivo la stessa borsa può essere così creata da quattro carceri diverse: «Da quello di piazza Lanza a Catania dove si lavora il feltro alla stampa fatta nel carcere di santa Maria Maggiore a Venezia. L’obiettivo è offrire un cambiamento e salvare posti di lavoro». Da qui l’iniziativa lanciata nei punti vendita del gruppo Bagagli a Palermo, dove la linea Made in Prison sarà in vendita per tutto il periodo natalizio e dove il nuovo amministratore giudiziario, Antonio Coppola, afferma l’importanza di dare un «segnale di rottura rispetto allo stereotipo che è solo la mafia a dare lavoro e che la confisca dello Stato porta inevitabilmente al fallimento».

«Speriamo di collaborare presto a questa iniziativa all’interno della sezione femminile del carcere Pagliarelli», dice Rosalba Romano, responsabile a Palermo della sartoria sociale, altra piccola utopia che in città ha permesso ad oltre 20 donne di riscattare il proprio passato imparando a usare ago e filo. «Alcune, scontata la propria pena, sono tornate nel nostro laboratorio esterno – spiega Rosalba Romano – una realtà su base volontaria che è diventata un rifugio a supporto di anime fragili. Il vero tema è la risocializzazione una volta fuori, perché dentro quelle sbarre si perde la cognizione della realtà. La nostra più grande soddisfazione è aver visto diventare socia della cooperativa una delle donne che ha fatto il suo percorso nella sartoria. Segno che il contatto con il bello è uno stimolo al cambiamento e che ai sogni non si deve rinunciare mai».


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