La storia del Pozzo di Gammazita, oggi umile cortile Perla della passeggiata a mare più antica d’Europa

Ma poi, chissà la gente che ne sa,
chissà la gente che ne sa,
dei suoi pensieri sul cuscino che ne sa,
della sua luna in fondo al pozzo che ne sa,
dei suoi pensieri e del suo mondo.

(Francesco De Gregori)

I viaggiatori del Gran Tour lo conoscevano, anzi, ne andavano matti. Ne amavano raccontare la complessa vicenda di quella eroica fanciulla che, durante il Vespro, preferì la morte al disonore per mano del vile soldato. Amavano dipingerlo in romantiche gouace dalle tinte ocra, dove il cielo azzurro non stonava con le mirabili quanto minacciose rocce etnee, figlie della natura, e nemmeno con l’antropica scala che giungeva al fondo grazie a un complesso sistema di terrapieni. Un intreccio visivo, emotivo e di storie narrate.

Il Pozzo di Gammazita non è mai stato solo un pozzo, anzi, non è mai stato nemmeno un vero pozzo, trattandosi di un abbeveratoio per cavalli. Qui erano le mura di città, erette su un suolo sabbioso, e forse la fanciulla leggendaria si gettò giù da una torre, perduta con il risanamento voluto dall’imperatore Carlo. La storia di Gammazita riecheggiava ancora dopo quasi tre secoli, il suo sangue ancora imbrattava il fondo della fontana e la cortina di mura della Marina venne pietosamente battezzata in memoria della vicenda. Nel 1621, ad opera del viceré Francesco Lanario di Carpignano, la fonte venne adeguata come abbeveratoio e da qui partiva la più antica passeggiata a mare che l’Europa ricordi. La passeggiata, decorata con alberi e panchine, venne lastricata coi resti dell’Acquedotto romano e trova una insolita e attenta descrizione in Giovanni Verga: «Vestito che fu Pietro i due amici andarono alla Marina. I viali erano affollatissimi; la musica eseguiva le più appassionate melodie di Bellini e di Verdi; un bel lume di luna si mischiava alle vivide fiammelle dei lampioncini, sospesi in festoni agli alberi, che illuminavano i viali. Era una di quelle sere incantate che si passano su queste spiaggie del Mediterraneo, in cui lo specchio terso ed immenso del mare, che riflette tremolante il raggio dolce e pacato della luna, sembra servire di cornice al quadro allegro, vivace, animato, che formicola colle sue mille seduzioni sotto gli alberi». Si estendeva dalla nostra fonte fino alla chiesupola del Salvatore alla Marina, arroccata sugli scogli come un castello di fantasmi (e ancora una volta è Verga a tramandare il racconto degli spiriti che la inquietavano).

La minaccia della lava nel 1669 spinse la popolazione a riempire di massi e macerie il fonte, affinché esso si potesse recuperare dopo il cataclisma e così fu. Una lunga scalinata era però necessaria a raggiungere il fondo, dove ancora il sangue di Gammazita faceva da monito e ispirava poeti. Fu così che da fontana divenne pozzo. La lava non inghiottì solo l’abbeveratoio, ma giunse fino alla Porta dei Canali, arrestandosi alla fontana che le diede il nome, dove erano raccontate le vicende fantasiose di Amenano e della ninfa Gammazita, giustificazione secentesca di tal nome. 

Quasi metà della passeggiata rimase così perduta per sempre, l’altra metà conobbe un nemico assai più temibile di ogni cataclisma: il progresso. Su progetto dell’ingegnere Petit si provvide a erigere gli Archi della Marina, destinati a cambiare per sempre il volto della città giungendo dal mare, mentre sotto il regime fascista si pensò bene di dare il colpo di grazia alla memoria di quella splendida passeggiata con una nuova colata, non più di lava, ma di cemento: nasceva il molo Crispi che allontanò Catania dal suo mare.

Il Pozzo nel frattempo diventava un umile cortile, circondato da certa brutta e instabile edilizia popolare e veniva inghiottito ancora una volta. Il resto è storia nota: i tossicodipendenti lo presero di mira e fu un privato a chiuderne l’accesso abusivamente, pur preservandolo. Una delle infinite perle che costituiscono la ricca collana di Catania, tanto nota ai viaggiatori del Grand Tour, quanto sconosciuta persino dal sindaco della sua stessa città.

Iorga Prato

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