La spending review di Mario Monti? Una presa in giro

di C. Alessandro Mauceri

Ci siamo già ripromessi di effettuare un’attenta analisi di come la pubblica amministrazione utilizza le somme da noi versate con le varie tasse. Pensiamo, però, che prima di approfondire le singole voci di spesa sarebbe bene vedere in che modo il Bilancio dello Stato ripartisce le proprie entrate (ovvero, per la stragrande maggioranza, le somme richieste ai singoli cittadini e alle imprese).

Già in passato abbiamo citato lo strumento adottato dal Governo Monti per risolvere il problema del debito pubblico del nostro Paese (visto che né il gruppo di tecnici/ministri, né il superconsulente avevano trovato una soluzione). Il Governo tecnico (non essendo stato capace di trovare una soluzione o forse per eccesso di zelo nell’adottare le procedure previste da Agenda 21 locale, che prevedono il coinvolgimento diretto di tutti i diretti interessati) ha chiesto a tutti i cittadini di proporre una soluzione al problema del debito pubblico.

Ebbene, in pochi giorni sono arrivate oltre 135.000 segnalazioni sulla spending review (chiamarla “revisione di spesa” sarebbe stato troppo volgare, meglio usare termini pseudo tecnici, ma più professional e trendy). Dopo un’analisi di queste proposte il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, ha affermato che “le pubbliche amministrazioni devono cercare di evitare sprechi in modo da non indurre l’introduzione di nuove tasse”.

Il Consiglio dei Ministri con il decreto legge “disposizioni urgenti per la riduzione della spesa pubblica a servizi invariati” (noto come spending review) ha deciso di procedere con interventi strutturali rivolti a migliorare la produttività delle diverse articolazioni della pubblica amministrazione risparmiando in tal modo 4,5 miliardi per il 2012, 10,5 miliardi per il 2013 e 11 miliardi per il 2014.

In teoria, il raggiungimento di questi obiettivi avrebbe potuto essere raggiunto intervenendo in diversi settori, primo fra tutti la RIDUZIONE della spesa PER L’ACQUISTO DI BENI E SERVIZI E la TRASPARENZA DELLE PROCEDURE.

Secondo la manovra Monti, gli acquisti da parte di tutti i soggetti pubblici dovranno essere effettuati sotto il controllo della Consip, la società per azioni del Ministero dell’Economia e delle Finanze a tal fine creata. Come se non bastasse, i contratti già stipulati potranno essere sciolti unilateralmente dalle amministrazioni pubbliche grazie ad una clausola ex lege, a meno che le imprese che li hanno sottoscritti non si adeguino a quanto deciso dalla Consip. E, se le pubbliche amministrazioni non lo faranno, tale azione sarà comunicata alla Corte dei Conti al fine del controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio.

Il risparmio che dovremmo ottenere dovrebbe aggirarsi intorno ai 6,5 miliardi di euro. Salvo il fatto che, per semplificare le procedure, dovrà prima essere creato un Albo che annoveri tutti i contratti e convenzioni; inoltre, per ciò che riguarda i contratti di determinate categorie di beni e di servizi (energia elettrica, gas, carburanti – rete ed extra-rete, combustibili per riscaldamento e telefonia – fissa e mobile) è stabilito l’obbligo assoluto per le pubbliche amministrazioni di acquistare solo da imprese che adottano gli strumenti di acquisto e di negoziazione messi a disposizione da Consip, ovvero dalle centrali di committenza regionali, e ciò in deroga alle norme sul libero mercato: ciò genererà probabilmente difficoltà nell’attuazione del decreto.

Tutte le Amministrazioni pubbliche (Comuni compresi) dovranno “pescare” dal catalogo centralizzato (Mepa) per i loro piccoli acquisti sotto la soglia comunitaria (130 mila per le amministrazioni statali, 200 mila per quelle locali).

Appare quindi evidente che l’attuazione di questa manovra, nata sotto l’egida di intervento “urgente” non avrà alcun ritorno nel breve periodo. Inoltre, così facendo, una fetta considerevole del Pil nazionale finirà nel monopolio degli acquisti di Consip, la quale dovrà adottare un sistema di controllo e di verifica che, però, non è ancora pronto.

Anche sotto il profilo strettamente tecnico (come ha già rilevato Il Sole 24 ore) questa procedura sembrerebbe essere tutt’altro che semplice da attuare: la norma parla di “convenzioni” o “accordi quadro” anziché di “strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip”: ciò genererà un dilemma che indurrà in confusione molti uffici acquisti.

Inoltre gli uffici per il controllo interno di gestione della Consip (a destra, foto tratta da serverlog.it), vale a dire i soggetti delegati alla cura delle procedure, risultano ancora scarsamente diffusi nella realtà della pubblica amministrazione italiana.

Altra forma di risparmio dovrebbe venire dalla riduzione delle spese dei Ministeri. Le misure dovrebbero (ancora una volta questo termine è necessario) consentire agli Enti statali l’eliminazione di eccessi di spesa per un importo di 1 miliardo e mezzo per il 2012 e 3 miliardi a partire dal 2013. Ad esempio, per il Ministero dello Sviluppo economico e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti le misure di razionalizzazione prevedevano la soppressione dell’Ente nazionale per il Microcredito, dell’Associazione ‘Luzzatti’ e della Fondazione ‘Valore Italia’.

Ebbene, a tutt’oggi due dei tre soggetti sopra indicati (Ente nazionale per il Microcredito e della Fondazione Valore Italia – Foto a destra tratta da flickr.com) sono ancora vivi e vegeti. Anche l’Ente nazionale per il Microcredito, la cui chiusura era prevista entro 30 giorni dall’entrata in vigore del decreto, gode di ottima salute (tanto che fino a pochi giorni or sono ha organizzato manifestazioni di livello internazionale). Stessa sorte per la Fondazione ‘Valore Italia’ che avrebbe dovuto essere soppressa contestualmente all’entrata in vigore del decreto e che invece continua non solo ad operare, ma addirittura richiede ai cittadini il versamento di contributi tramite il cosiddetto 5 per mille….

E così via per molti altri enti (Isvap, Covip, Arcus spa, Centro Tipologico Nazionale e Comitato centrale per l’albo degli autotrasportatori solo per citarne alcuni) che, lungi dall’essere stati soppressi, sono più che attivi ed operativi e continuano, non si sa come e non si sa perché, a costituire un peso (come asserito dal decreto Monti) per la spesa pubblica.

Come mai tutti queste voci di spesa non sono state cancellate? Ebbene, è successo, anche se pochi ne sono stati informati dopo il clamore del… “risparmio su tutti i fronti”, che molte delle misure che prevedevano abbattimento dei costi della pubblica amministrazione sono state lasciate dove si trovavano. L’assalto delle lobby ha così salvato molte piccole e grandi strutture: dall’authority sui fondi pensione alla Covip, dal Comitato per le pari opportunità al fondo Ovi per i comuni confinanti alla Cineteca Nazionale.

In realtà, più che guardare alla riduzione della spesa, i fabbisogni economici e finanziari sono stati coperti con nuove imposte, come per la “possibilità” che otto Regioni in ‘rosso’ aumentino l’Irpef locale, o l’aumento delle rette per gli studenti universitari fuori corso, oppure con modifiche sanzionatorie come le multe Antitrust per pratiche commerciali scorrette che potranno salire fino a 5 milioni di euro.

Nel frattempo, con la stessa legge si è deciso di ridurre del 20% le auto blu in uso dagli uffici della pubblica amministrazione e similari con una spesa complessiva di oltre 1 miliardo di euro.

Iniziativa meritevole se non fosse per il fatto che il Governo Monti ha stimato le auto blu in 60.429 unità, mentre le auto censite dal ministro Brunetta non più tardi di due anni fa erano ben 629.120. Ma allora, che fine hanno fatto (e quanto costano alle nostre tasche) le altre 568.691 auto blu?

 


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