In occasione della rassegna di Etnafest-cinema, "La Sicilia tra schermo e storia" (fino al 28 giugno a Zo-Centro Culture Contemporanee), pubblichiamo un estratto delle prime pagine del volume pubblicato in occasione di questo evento
La Sicilia al cinema: il catalogo è questo
A voler tentare un rapido resoconto dei periodi storici trattati dalla filmografia sulla Sicilia salta subito all’occhio come il Novecento, con i suoi fatti di costume, con le sue cruente storie di mafia, con alcuni rilevanti episodi bellici (lo sbarco degli alleati) sia il secolo più rappresentato in assoluto. (…) Segue a ruota il romantico e patriottico Ottocento, che tra vicende risorgimentali e post-unitarie e travagliate passioni di donne, vogliose come lupe e fragili come capinere, ci offre dell’isola un’immagine ambivalente, per non dire gattopardesca. Volendo fare una ricognizione del rapporto tra cinema e storia isolana, tutta l’intera, vasta, sterminata filmografia siciliana potrebbe essere utile alla storiografia perché oggi nel dominio storia-cinema qualunque film può essere ritenuto oggetto possibile di ricerca storica; ma se si tratta di verificare quanto della storia nostra si riflette nella cinematografia e quanto della cinematografia è specchio della storia siciliana e quanto ne porta i segni, non molti sarebbero i titoli e gli autori che si salverebbero. Il resto è impostura, perché pur raccontando – come spesso accade – fatti reali, il cinema non riesce a cogliere l’intima essenza del contesto storico-sociale in cui essi accadono.
Il Novecento cinematografico siciliano dal punto di vista storico si riduce a una messa in scena di fatti di mafia legati agli assassinii di alcune personalità di spicco della magistratura, “novelli condottieri” di una guerra civile senza fine. Ed è la logica dell’eroe: positivo o negativo (sostitutiva di quella del principe o del condottiero) a determinare lo stile del racconto di questi film, che sembrano fatti più per santificare che per capire. Al di sopra della mischia spiccano due, tre titoli insoliti nel panorama italiano e soprattutto del genere “mafioso”, che ci aiutano a capire di più di una pagina di storia studiata sui libri di testo, il separatismo, la mafia e le lotte contadine: “Salvatore Giuliano” di Rosi, “Un uomo da bruciare” di Orsini-Taviani, “Placido Rizzotto” di Scimeca. Al di fuori del “genere” resta l’episodio dello sbarco delle truppe alleate visto con gli occhi di Carmela, la ragazza siciliana di “Paisà” di Rossellini. Ma chi potrà negare che c’è più storia in film che raccontano la difficile lotta per la sopravvivenza dei pescatori di Trezza (“La terra trema”), la triste odissea dei nostri emigranti (“Il cammino della speranza”, “Kaos”, “Nuovomondo”, “Oltremare”), delle peripezie politiche di un modesto impiegato municipale per non perdere il posto di lavoro (“Anni difficili”), che in quelli incentrati su eroi e capipopolo?
L’Ottocento è il secolo in cui i concetti di libertà e di nazione si fondono in un’unica idea guida della coscienza collettiva. Il cinema scrive delle pagine risorgimentali interessanti, prevalentemente incentrate su quel fondamentale avvenimento storico della nazione e della nostra Isola: lo sbarco dei Mille. “1860” di Blasetti, con efficace tono realistico, esamina nell’animo di personaggi assai umili il riflesso degli avvenimenti storici a cui essi prendono parte, e nell’atto stesso in cui vi partecipano, che è poi un po’ la lezione del romanzo storico manzoniano. “Viva l’Italia” di Rossellini, dai toni più celebrativi dovuti alla ricorrenza del Centenario dell’Unità d’Italia, racconta la parabola gloriosa dell’eroe deidue mondi, colta nella sua fase meno splendente da Quarto al Volturno, accompagnandolo fino alla sua Caprera, affaticato e deluso. “Il Gattopardo” di Visconti pone lo sguardo disilluso del principe don Fabrizio di Salina su un momento cruciale del Risorgimento in Sicilia, dove il presunto rinnovamento apportato dal nuovo Regno d’Italia, appare al principe come un ennesimo fallimento: un mutamento senza contenuti. “Bronte: cronaca di un massacro” di Florestano Vancini, con profondo coraggio civile, oltrepassa l’ufficialità della storia per raccontare il lato oscuro del Risorgimento. “Il giorno di San Sebastiano” di Pasquale Scimeca mette in scena un cruento episodio post-unitario durante i fasci siciliani perpetrato ai danni dei contadini in lotta per l’occupazione delle terre.
Fino a qualche tempo fa, per il cinema, la storia siciliana – anche quella tradizionale, fatta di re, tiranni e imperatori, di battaglie e di date – sembrava non andasse a ritroso oltre l’Unità d’Italia. Infatti, se si eccettua per due, tre titoli: “Vespro siciliano” (il romanzetto popolare di Pastina sulla cacciata degli angioini dall’isola), “I cavalieri dalle maschere nere” e “Il principe ribelle” (due feuilleton di ambientazione
Sei/Settecententesca, che raccontano di società segrete e di rivolte contro la prepotenza asburgica), se guardiamo all’indietro esiste poca roba. Questi ultimi due titoli, entrambi del palermitano Pino Mercanti, sono tratti rispettivamente dai romanzi di Luigi Natoli: “I Beati Paoli” e “Coriolano della Floresta”. Natoli – con una narrazione fitta di intrighi e di colpi di scena da parte di due vecchi compagni di avventure uniti nella eterna lotta tra il bene e il male, in difesa di due giovani innamorati, vittime di passioni e vendette familiari – all’impegno sociale di Sue accompagna il gusto avventuroso di Dumas. Mercanti, invece, tralascia il primo a favore del secondo, realizzando due film ascrivibili al genere “cappa e spada”. Ma qui è bene ricordare che il genere “cappa e spada” si distingue dal genere storico perché tende apertamente a privilegiare l’immaginazione e l’invenzione rispetto alla ricostruzione storica. Lo sfondo e gli avvenimenti storici, che di solito sono presenti, diventano un puro pretesto narrativo, un semplice supporto su cui innestare gesta e imprese di pura fantasia che non hanno nulla di verosimile.
A rappresentare degnamente il Secolo dei Lumi in Sicilia, troviamo due film di matrice letteraria dai forti richiami storici, il secondo più del primo: “Marianna Ucria” di Roberto Faenza e “Il consiglio d’Egitto” di Emidio Greco. Tra violenze familiari, minuetti, sfarzosi costumi, salotti aristocratici, torture e decapitazioni, viene fuori una Sicilia dei Viceré, oscurantista, retriva e oppressiva. Pasquale Scimeca con il suo “La Passione di Giosué, l’ebreo”, pur se in modo indiretto, ma con grande efficacia emotiva, ricorrendo al dramma popolare sacro, affronta una triste quanto poco conosciuta pagina della storia dell’ebraismo in Europa e in Sicilia al tempo di Isabella la Cattolica.
Se volessimo riandare al passato più remoto dovremmo districare la storia dal mito e dalla leggenda: quelli di Ulisse e Polifemo, del democratico Empedocle; del feroce tiranno Dionisio e dell’eclettico Archimede del sacco di Siracusa; della piccola Cabiria, rapita dai fenici “dal suo giardino di Catania in vista dell’Etna” e venduta ai cartaginesi.