A pochi giorni dalla giornata di commemorazione delle vittime dellOlocausto, il Monastero dei Benedettini di Catania ha ospitato la presentazione del volume Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. Unoccasione per fare i conti con temi importanti e poco affrontati
La Shoah in Italia, tra memoria e responsabilità
«Non c’è bisogno di essere ebrei per comprendere la storia in Europa del XX secolo, però aiuta». Citando questa battuta di Tony Judt, Luciano Granozzi, docente di storia contemporanea presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’università di Catania, ha aperto l’incontro di presentazione del volume Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. Un’opera ambiziosa, frutto del tentativo di rileggere la storia italiana attraverso la Shoa, che si compone di saggi di autori italiani e stranieri raccolti da quattro studiosi di fama internazionale: Marcello Flores, Marie-Anne Matard-Bonucci, Enzo Traverso e Simon Levis Sullam. Storia della Shoah in Italia è anche compimento del precedente volume Storia della Shoah in Europa, pubblicato da Utet nel 2005, che affrontava il tema dell’Olocausto nel più generale ambito europeo. Alla presentazione, che si è tenuta giovedì al Monastero dei Benedettini, sono intervenuti oltre a Sullam e Granozzi, i docenti dell’Università di Catania Ernesto De Cristofaro e Attilio Scuderi.
Il tema al centro del dibattito è stato il ruolo dell’Italia rispetto al fenomeno della Shoa e la memoria storica che ne è emersa. Minimizzato dietro lo stereotipo degli “italiani brava gente”, il ruolo del nostro Paese si è radicato nella memoria nazionale come conseguenza di un’imposizione attuata dal potente alleato tedesco. Scopo del volume è, infatti, di reinterpretare l’entità del fenomeno della Shoa in Italia, rimettendo sulla bilancia il peso delle responsabilità nazionali nella tragica vicenda che, al contrario di quanto si è generalmente pensato, non ci ha visto solo vittime, ma anche carnefici.
«La storia della Shoa – spiega il professor Granozzi – non è nata all’insegna del ricordare, ma del dimenticare». Egli stesso rammenta di aver vissuto la Shoa come un elemento inedito e di aver saputo soltanto quand’era al liceo che un professore dello stesso liceo che frequentava, dopo essere stato denunciato dal proprio preside, fu deportato e morì a Mauthausen: «Fu una scoperta scioccante. E ciò può servire a darvi un’idea di quale fosse il grado di disinformazione della mia generazione. Appena adolescenti sapevamo tutti benissimo di appartenere secolo di Hiroshima, ma non eravamo ancora informati di appartenere anche al secolo di Auschwitz».
n riferimento all’opera, Granozzi ha sottolineato «la novità di approccio metodologico» del secondo tomo che si occupa della stratificazione della memoria. Se l’imperativo di dimenticare in fretta gli orrori della guerra fu all’inizio generalizzato e la questione del genocidio degli ebrei stemperata nella mitologia di una partecipazione corale alle varie resistenze nazionali contro il nazifascismo, a partire dagli anni Ottanta il clima è cambiato radicalmente. La Germania è profondamente lacerata dal dibattito sul “Passato che non deve passare”. In Francia, l’opinione pubblica partecipa attivamente a processi come quello contro Klaus Barbie prendendo atto della vergogna del collaborazionismo. «In Italia viceversa – ha concluso Granozzi – l’approccio con la memoria è stato “soft”. La Shoah, non è stata mai considerato un fatto propriamente italiano e si è dovuto attendere molto tempo prima che gli storici tornassero ad occuparsi delle leggi per la difesa della razza varate dal fascismo nel 1938».
Ernesto De Cristofaro, docente alla Facoltà di Giurisprudenza, nonché autore di uno dei saggi raccolti nell’opera che tratta della memoria della Shoah e la legge italiana, aggiunge: «L’opera aiuta, attraverso un cammino a ritroso, a comprendere come si siano potute creare le condizioni per lo sviluppo di quelle tesi negazioniste che ancora oggi nutrono il dibattito culturale sulla Shoah». Facendo riferimento alla recente pubblicazione del libro I diari di Mussolini, De Cristofaro afferma: « Il sorgere dell’antisemitismo non si deve a un tentativo di ingraziarsi l’alleato nazista. Come dimostra Michele Sarfatti, direttore scientifico del centro di documentazione ebraica di Milano, alle origini dell’antisemitismo italiano non c’è stata un’imposizione o un tentativo di allineamento all’alleato nazista, ma una maturazione, un cristallizzarsi di elementi autoctoni della cultura italiana». Conclude il suo intervento evidenziando che i processi sull’olocausto sono stati pochi in Italia e, soprattutto, non sono «divenuti occasione collettiva di riflessione sul senso delle nostre responsabilità».
Attilio Scuderi, docente di Letteratura italiana e Letterature comparate alla Facoltà di Lingue, affronta il tema della problematicità della rappresentazione della Shoah. «La Shoah è un evento estremo che pone il problema della sua rappresentabilità», afferma Scuderi e sottolinea come, in tutte le narrazioni della Shoah, sia presente la figura del narratore inattendibile. Cita, ad esempio, il Guido Orefice del film La vita è bella e lo Shlomo di Un treno per vivere, entrambi personaggi che offrono narrazioni distorte della realtà. Per Scuderi c’è anche il problema della rimozione che va sempre di pari passo con la memoria. Rimozione causata dal senso di colpa, da un lato, e dalla “polarizzazione ideologica” dall’altro, che ci presenta un centro destra al quale fa comodo non ricordare, e una sinistra troppo assorbita dal mito della resistenza. «Il fenomeno della Shoah in Italia – aggiunge – non produce un corpus di opere nutrito e non è presente nell’immaginario letterario, ancor più nel cinema, dove la recente riscoperta del tema della Shoah è, a mio parere, sempre parziale e in un certo senso impedita». E conclude con un appello ai suoi studenti: «Leggete Primo Levi, la conoscenza della Shoah è un eccezionale strumento di interpretazione del mondo e di noi stessi».
Simon Levis Sullam, uno dei curatori del volume, chiude l’incontro spiegando quali siano stati i principi ispiratori dell’opera: «Sulla scia di Hannah Arendt, lo schema è stato quello di raccontare l’olocausto, mostrando, ad esempio, come esso abbia contribuito all’interpretazione di fenomeni precedenti alla Shoah, tra cui il genocidio degli armeni». Inoltre, il tessuto ideologico dell’opera si compone delle riflessioni del polacco Zygmunt Bauman che mostra come «l’olocausto sia inscritto in alcuni aspetti tipici della modernità, come la meccanizzazione dell’industria e la burocratizzazione, che hanno consentito al nazismo di mettere in piedi un apparato di persecuzione di massa».
Sulla memoria, Sullam afferma che, nonostante oggi ci sia addirittura una legge che impone di ricordare, il problema non si è del tutto risolto. A testimoniarlo, l’esistenza di luoghi semi-sconosciuti come Fossoli, in provincia di Modena, in cui si trova il principale campo di transito per prigionieri italiani diretti ai lager dell’Europa orientale. «Un luogo – dice lo storico di Oxford – che è stato sconosciuto e in stato di abbandono per decenni, mentre rappresenta uno snodo fondamentale del problema ebraico in Italia, che ha riguardato testimoni e carnefici prevalentemente italiani, e non tedeschi». Sullam conclude con una riflessione sul rapporto tra intimità e genocidio: «I genocidi non si svolgono lontano da noi, ma riguardano il vicino della porta accanto. L’olocausto è stato un’esplosione di violenza che ci ha riguardato da vicino e che potrebbe continuare a riguardare ciascuno di noi».
Per dirlo con le parole di Primo Levi, “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.