Mar Ionio: uno dei mari più suggestivi di tutto il Mediterraneo ma soprattutto una zona estremamente attiva dal punto di vista geologico, causa delle più devastanti catastrofi della nostra storia. È qui infatti che hanno avuto origine terremoti distruttivi come il sisma di Messina del 1908, il terremoto della Val di Noto del 1693, fino ad arrivare a eventi più lontani come il sisma del 1169 in Sicilia orientale e quello del 362 tra Sicilia e Calabria meridionale. Ma a cosa è dovuta questa elevata instabilità? Lo Stretto di Messina e l’intera area ionica possono essere considerate come delle zone cuscinetto che assorbono i lenti ma imponenti movimenti tettonici tra la placca Africana e quella Eurasiatica. Le due placche, divise dall’antico oceano della Tetide formatosi circa 250 milioni di anni fa, si avvicinarono progressivamente fino a collidere determinando la scomparsa della Tetide e la formazione delle catene montuose delle Alpi e degli Appennini.
Questo quadro geodinamico piuttosto complesso è accompagnato dalla presenza di diversi sistemi di lunghe e profonde faglie che, come cicatrici, segnano il fondale sotto il Mar Ionio. Proprio queste strutture (in particolare la Faglia Ionica e la Faglia Alfeo-Etna) sono state recente oggetto di studio da parte di un’equipe internazionale di ricercatori coordinati dalla dottoressa Alina Polonia del Cnr-Ismar di Bologna. I risultati della ricerca, appena pubblicati dalla prestigiosa rivista scientifica Nature Communication, hanno confermato che la zona in cui si sono generati i catastrofici sismi che hanno caratterizzato l’Arco Calabro (il limite tra le due placche nel sistema di subduzione Africa-Europa) coincide proprio con l’area delimitata dalle faglie oggetto di studio. Le stesse faglie, inoltre, sarebbero responsabili del progressivo allontanamento tra Sicilia e Calabria. Ma la notizia che ha suscitato maggiore interesse è stata l’individuazione, in profondità, di 13 anomalie magnetiche allineate con i suddetti sistemi di faglie, riconducibili alla presenza di diapiri di serpentino (corpi rocciosi semifusi che, per forti variazioni di temperatura e conseguente differenza di densità, sono risaliti dalle profondità del mantello terrestre fino a intercettare il fondale marino dello Ionio, portandosi dietro rocce profonde circa 15-20 chilometri e facenti parte dell’antichissimo fondale oceanico della Tetide). La risalita di questo materiale così profondo ha evidenziato dunque la presenza di una cosiddetta finestra tettonica, ossia un’apertura nella crosta terrestre che consente agli scienziati di studiare da vicino rocce molto antiche che altrimenti, per la loro profondità, sarebbero inaccessibili.
In questo quadro sarebbe coinvolto anche l’Etna. Le profonde faglie dalle quali risalgono i diapiri provenienti dal mantello dell’antica Tetide, infatti, sono strutture in grado di innescare fenomeni vulcanici e potrebbero quindi essere all’origine della formazione del nostro vulcano. «Gli allineamenti tra diapiri, faglie sismogenetiche e l’edificio vulcanico etneo, che si colloca sull’estremità nord-occidentale della Faglia Alfeo-Etna, hanno suggerito agli autori che questi elementi possano essere tutti collegati tra loro», spiega Marco Neri, ricercatore presso l’Ingv di Catania. E in effetti lo studio della dottoressa Polonia ha trovato, come ulteriore prova a supporto, un’interessante corrispondenza tra l’età dell’ultima fase di attività tettonica responsabile della risalita diapirica (collocabile tra 300mila e 700mila anni fa) e l’età della formazione dell’Etna. Sono ancora ipotesi che devono essere ulteriormente validate da successive ricerche ma in ogni caso «siamo di fronte a una scoperta molto importante – aggiunge Neri – poiché questi studi cominciano a far luce su come sono fatti i fondali marini che, a causa della difficoltà con cui possono essere indagati, celano ancora le risposte a molti quesiti rimasti irrisolti da tempo. Se della superficie terrestre sappiamo molto (non tutto), la costituzione dei fondali marini – conclude il ricercatore – comincia a svelarsi solo da poco, a causa delle difficoltà logistico-tecniche che questo tipo di ricerche comporta e della costante penuria di fondi dedicati alla ricerca».
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