LA CITTÀ INVISIBILE/ Ceneri di memoria

Gli occhi azzurri adesso si socchiudono e sembrano ancora più piccoli, sul viso rotondo offeso dal sole del sud. Lo sguardo si poggia ora su un punto, ora su un altro dell’ordinato gregge pietrificato, esita sui cespugli fioriti. Poi, dinanzi all’iscrizione di una delle lapidi, gli angoli della bocca si piegano verso il basso, e un’ombra dolorosa cancella l’accenno di sorriso sulle labbra: erano così giovani.

È la prima volta che Eleanor visita il Cimitero Inglese di Catania, che conserva le spoglie dei soldati appartenenti all’ottava Armata del Commonwealth e alla settima Armata americana, caduti durante la liberazione della Sicilia nel ‘43. Viene dall’Inghilterra, il Paese che qui conta più presenze tra le iscrizioni funebri: 2050. Davanti ad una di esse, a poca distanza da noi, il marito si inginocchia per deporre una piccola croce di legno tra le rose. Per portarla qui hanno preso un pullman: un grande pullman turistico che li attende all’ingresso. Vuoto. A parte l’autista semiaddormentato al posto di guida, tutto intorno è deserto. Sagome indistinte di auto si inseguono rumorosamente poco più in là, sull’autostrada; aerei solcano il cielo a bassa quota, ad intervalli di pochi minuti, pronti ad atterrare sulla pista del vicino aeroporto. Al loro passaggio le cime degli alberi più alti si inchinano. In alcuni, privilegiati momenti resta solamente il vento a far udire la voce dei cipressi che contornano l’area del cimitero. Si dice che, per la loro forma a punta verso l’alto, questi alberi siano augurio di una rapida ascesa alla dimora celeste. La parte più interna del campo è invece delimitata da ulivi. Un tocco di essenza mediterranea tra l’erba bassa del folto prato all’inglese. E sembra quasi che, in questo giardino fiorito, la morte non faccia paura.

Eppure, in quest’oasi di serenità circondata dal trambusto della vita frenetica, una breve passeggiata tra le file ordinate di lapidi lascia dietro di sé un senso di desolazione profonda, un’eco che avvolge le parole della donna: erano così giovani. Diciotto anni aveva il soldato semplice Rennie Firth quando morì, insieme ad altri nove coetanei. Tom Fox, stesso grado, ne aveva diciannove, mentre ad Harold Augustas Scarse, fuciliere della Royal Inniskilling, spetta la palma del martire più giovane: diciassette anni. La fascia d’età che va dai venti ai ventisei anni è quella più rappresentata. Erano così giovani. I piccoli occhi azzurri di Eleanor sembrano fissarmi da sotto l’ampio cappello. Poi si abbassano e spariscono sotto la visiera. What a waste. A waste.

La Commonwealth War Graves Commission, che costruisce e cura cimiteri militari in 150 Paesi del mondo, ha stabilito regole ben precise: che ogni caduto sia commemorato individualmente da un’iscrizione alla sua memoria; che le lapidi siano uniformi, ad indicare che in nessun conto sono tenute le differenze di rango civile e militare, di razza e religione; che la terra straniera in cui riposano le salme dei soldati rievochi i giardini della casa che troppo presto hanno lasciato. In fondo a questo cimitero, al centro tra le undici file di tombe di ciascun lato, la grande Cross of Sacrifice, alta circa sei metri, rappresenta la fede della maggioranza dei caduti. Ai suoi piedi una corona di fiori e un biglietto scritto a mano commemorano coloro who gave their lives for the liberation of Sicily. Una croce è anche replicata in piccolo su ogni lapide, tranne cinque che portano incisa la stella ebraica a sei punte.

Su ogni pietra sono poi riportati l’emblema nazionale o del reggimento di appartenenza, il grado, il nome, l’unità, la data del decesso, l’età e, in basso, un’iscrizione voluta dai familiari di ciascuna vittima. Frasi brevi, essenziali: un animo nobile in meno sulla Terra, un angelo in più in Cielo. Strappato dalla nostra casa ma non dai nostri cuori. Till we meet again, nelle sue varianti, fino a formule latine come Requiescant in pace. Centotredici lapidi commemorano i caduti ignoti, anche se ai piedi di alcune di esse sono piantate delle piccole bandiere canadesi. Anche per loro una scritta in basso, tra i fiori: Known unto God, ad indicare che almeno Dio conosce i loro nomi. Ventitre lapidi celebrano altrettanti caduti australiani, ventidue sono i sudafricani che qui riposano. I pochi rimanenti sono canadesi, neozelandesi, norvegesi e originari di altri Paesi alleati; ci si può anche imbattere nell’unica tomba di un soldato dell’esercito indiano. Sullo sfondo, l’imponente massa fumante dell’Etna è trasfigurata dalla lontananza e dall’aria calda del mattino: è appena visibile, non molto più scura della tinta del cielo. Custode oggi, e testimone allora, della vita e della morte di questi figli di un’altra terra.

Lo sbarco avvenne nel luglio del ’43, in una Sicilia difesa dalle truppe italo-tedesche dell’Asse, colte di sorpresa sul versante sud-orientale dell’isola. Già il 23 luglio la settima Armata aveva conquistato tutta la Sicilia Occidentale, mentre l’ottava veniva bloccata sulle pendici meridionali dell’Etna. Fu allora organizzato un attacco combinato delle dodici divisioni delle due Armate sui lati orientale e occidentale del vulcano, dove si registrarono i combattimenti più sanguinosi della campagna. Catania fu conquistata il 5 agosto; la presa di Messina – il 17 agosto – portò a termine, dopo sei settimane, la liberazione della Sicilia. Le truppe dell’Asse indietreggiarono verso la penisola dove il 3 settembre avvenne lo sbarco alleato e la firma dell’armistizio con l’Italia. Oggi, quei giovani stranieri che hanno contribuito a scrivere la nostra storia non sono che poche righe, immateriali e generiche, su un manuale di storia. Ma qui, essi rivivono. Rivivono nelle loro piccole storie personali, celate dietro un numero, un nome, un epitaffio scritto per loro da una mano affranta. Eppure pare che siano in pochi a preoccuparsi di questo luogo.

L’autista del pullman fa un cenno alla coppia inglese. È ora di andare. Eleanor mormora qualcosa – un posto bellissimo, così suggestivo e dimenticato – mentre un sorriso cordiale torna sulle labbra sottili. L’autista mette in moto, e l’ultima cosa che vedo sono due braccia che si agitano amichevolmente nella mia direzione. Gli alberi, e gli aerei di passaggio, sono di nuovo l’unica mia compagnia. La giornata è calda ma gli archi di una costruzione adiacente sembrano fatti apposta per offrire un po’ d’ombra. Nel muro bianco spiccano dei segni scuri: scritte inneggianti a squadre di calcio e poco stilnovistici messaggi d’amore. Ci sono anche delle panche su cui riposare, poggiando i piedi su una distesa di mozziconi di sigaretta e di cenere. Il rombo del motore di un’auto annuncia forse un altro visitatore: il cancello cigola e un giovane fa il suo ingresso all’interno del grande prato, preceduto di qualche passo da un grosso cane marrone. L’animale, con movimenti sicuri dettati dalla consuetudine, annusa in giro, si ferma un istante e trotterella via lasciando anche lui il suo omaggio ai piedi della targa che commemora gli ufficiali della Seaforth Highlanders. Poi sparisce nei campi vicini, seguito dal padrone.

Prima di andare via, raccolgo un piatto di plastica abbandonato tra due lapidi e un tappo di bottiglia, residuo di un qualche pic-nic di difficile datazione. Per questo luogo, paradossalmente, essere dimenticato vuol dire sopravvivere. What a waste. Questo è il saluto riconoscente di una città ai suoi liberatori. Qui, si può davvero riposare in pace.


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