Ai domiciliari sono finiti i vertici della T.C. Impianti. Con loro anche il cognato e il nipote acquisito del capomafia conosciuto anche come Turi Cachiti. I particolari del blitz compiuto dalla guardia di finanza di Catania
La bancarotta realizzata nell’interesse del boss Pillera Clan dietro alla ditta attiva nella posa della fibra ottica
«T.C. vuol dire Turi Cachiti». Per dire che dietro ai reati fallimentari che sarebbero stati compiuti dai vertici della T.C. Impianti c’è la mafia e, nello specifico il clan Pillera, basterebbe guardare la denominazione della società. Due lettere non casuali, che non rimanderebbero al termine telecomunicazioni ma porterebbero dritto al capomafia Salvatore Pillera, attualmente rinchiuso nel carcere di Novara in regime di 41 bis e conosciuto per l’appunto come Turi Cachiti. A sostenerlo è Salvatore Messina, nipote acquisito del boss e dal 2018 collaboratore di giustizia. Noto anche come Turi Manicomio, è stato lui a chiarire ai magistrati della procura di Catania che tra le società a disposizione della cosca ci sarebbe stata anche la ditta specializzata in lavori nel settore della telefonia, compresa la posa della fibra ottica, e con tante commesse ottenute dalla rinomata Sielte.
Anche sulla scorta di queste rivelazioni, la gip Giuseppina Montuori ha riconosciuto l’aggravante mafiosa nell’ambito di un’inchiesta per bancarotta fraudolenta che ha portato ai domiciliari Francesco Marino, Giovanni Consolo e Massimo Scaglione. Il primo è il legale rappresentante della T.C. Impianti, mentre gli altri sono ritenuti amministratori di fatto. Consolo e Scaglione sono cognato e nipote acquisito del boss. E non sono gli unici parenti a figurare nella compagine sociale: un quarto delle quote è di proprietà di Giuseppe Consolo, nipote diretto di Pillera ma non indagato. «I fondi che entravano in queste ditte provenivano anche dall’attività di usura compiuta da Rosa Pillera (una delle sorelle del capomafia e non indagata, ndr)», ha messo a verbale Messina in uno degli interrogatori. Per la gip, le sue ricostruzioni sono di «formidabile attendibilità». Il collaboratore di giustizia negli anni scorsi aveva fornito elementi utili all’indagine che portò all’arresto di Massimo Scaglione, per un’estorsione agli imprenditori di Sicula Trasporti. «Appartenente al clan, incaricato di riscuotere il pizzo ai danni dei Leonardi», erano state le parole usate da Messina per descrivere Scaglione. Per quella vicenda, il 48enne è stato già condannato in primo e secondo grado.
Per la procura di Catania, i tre indagati – destinatari di un sequestro di beni per un valore complessivo di 140mila euro – si sarebbero resi protagonisti a partire da ottobre 2018 di una serie di operazioni ideate con l’esclusivo intento di scrollarsi i debiti con l’Erario ammontanti a 800mila euro e proseguire l’attività imprenditoriale. Per farlo avrebbero sfruttato la Easytel, ditta riconducibile alla famiglia Consolo e dunque ai Pillera. La guardia di finanza, infatti, ha documentato i passaggi da T.C. Impianti a Easytel di macchinari, dipendenti e contratti stipulati dalla prima con Sielte. «Le manovre gravemente anomale poste in essere dagli amministratori di fatto e di diritto della T.C.lmpianti – si legge nell’ordinanza che ha portato anche al sequestro delle quote di Easytel – configurano operazioni distrattive di beni e risorse aziendali le quali non hanno semplicemente nociuto all’esigenza di soddisfazione dei creditori, ma hanno totalmente prosciugato le poste attive della società, prima florida e poi del tutto impoveritasi, creando un soggetto economico-giuridico del tutto nuovo che ne ha incamerato le poste attive senza accollarsi i relativi debiti e ne ha proseguito l’attività in condizioni artificiale equilibrio di bilancio».
Della T.C. Impianti, ad aprile dell’anno scorso dichiarata fallita dal tribunale etneo, le Fiamme gialle hanno faticato a recuperare libri e scritture contabili, mentre hanno intercettato sette fatture, emesse tra gennaio e maggio 2019, per operazioni ritenute inesistenti. L’aggravante mafiosa, infine, è stata riconosciuta anche a Marino: il legale rappresentante in un primo momento, alla presenza del curatore fallimentare, ha parlato di minacce subite da Consolo e Scaglione nel momento in cui voleva tirarsi fuori dalla società ma poi davanti ai pubblici ministeri ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.