Il procuratore aggiunto di Palermo, ospite della Facoltà di Giurisprudenza di Catania, ci parla del suo ultimo libro C'era una volta l'intercettazione e del rapporto tra giustizia e politica
Ingroia e la favola del giudice cattivo
Intercettiamo Antonio Ingroia, Procuratore della Repubblica di Palermo, intervenuto durante la conferenza sul rapporto mafia-politica di giovedì 14 Gennaio, tenutasi presso la Facoltà di Giurisprudenza. Il suo cellulare continua a squillare, si scusa perché dice «oggi è stata una giornata di lavoro molto intensa e non è ancora finita». Nonostante la stanchezza, risponde alle nostre domande e ci racconta quale stagione sta vivendo il nostro Paese e qual è il messaggio del suo nuovo libro: “C’era una volta l’intercettazione”.
Il suo ultimo libro si intitola “C’era una volta l’intercettazione”. Cos’era, dunque, l’ intercettazione, e cosa non è più ?
«Ho voluto raccontare la storia dell’intercettazione perché gli italiani sapessero che le intercettazioni telefoniche e ambientali non sono una minaccia per i cittadini, ma una risorsa grazie alla quale sono state evitate stragi e omicidi. Sono stati catturati latitanti sono stati sequestrati arsenali di armi, montagne di droga e di denaro sporco frutto di riciclaggio. Le intercettazioni sono uno strumento prezioso da tutelare e da utilizzare, e non vorrei che diventassero una favola da raccontare ai vostri nipoti: “C’era una volta l’intercettazione”…»
La legge sulle intercettazioni, dopo aver ottenuto il consenso della Camera, è adesso al vaglio del Senato. Qualora venisse approvata, quali limiti incontrereste voi magistrati nelle indagini?
«Il problema principale nasce da un paradosso contenuto nella legge, che impone che il Pubblico ministero debba prima trovare le prove di colpevolezza a carico degli indagati per poi poter utilizzare lo strumento delle intercettazioni. Insomma, la legge prevede che siano già stati acquisiti degli ‘evidenti indizi di colpevolezza’ a carico delle persone da intercettare. Chi ha un minimo di esperienza sa che se un Pm ha già acquisito degli evidenti indizi di colpevolezza non perde tempo, non spreca soldi del contribuente, facendo delle intercettazioni, ma fa arrestare le persone da arrestare. Le intercettazioni servono per trovare le prove ed è un paradosso che sia necessario trovare le prove per poter intercettare».
Chi ne trarrebbe vantaggio?
«Ne trarrebbero vantaggio i delinquenti, sicuramente non i cittadini per bene; solo i cittadini per male».
E’ possibile, dunque, profilare da parte della politica un tentativo di limitare il potere della magistratura?
«Direi che è evidente che dietro al disegno di legge sulle intercettazioni, vi sia un preciso disegno che è quello di togliere un ulteriore strumento alla magistratura e di creare, ancora una volta, una inefficiente strumentazione delle indagini».
Ci hanno spiegato che il pericolo incombeva su tutti, che tutti eravamo sotto controllo; per questa ragione urgeva una riforma delle intercettazioni. Lei cosa ne pensa?
«Penso che siano delle menzogne; che sono stati enfatizzati e strumentalizzati alcuni dati e che è esattamente il contrario di quello che si dice. L’Italia ha una delle legislazioni più garantiste al mondo, perché in Italia nessun cittadino può essere intercettato se ciò non viene autorizzato da un giudice terzo rispetto alle indagini. In qualsiasi altro Paese le intercettazioni possono essere direttamente disposte dal Pm o dalla polizia giudiziaria, in alcuni Paesi addirittura da organi amministrativi, per non parlare dei servizi segreti. Il problema, ancora una volta, è che questa legge è il frutto di una classe dirigente incline ad autoassolversi per legge».
Nella prefazione al titolo del suo nuovo libro, citava un presunto “pericolo di affossamento”. Affossamento di cosa?
«Intendo che questo disegno di legge servirà ancora una volta a creare una legge penale ancora più diseguale. Una legge penale forte con i deboli e debole con i forti. Gli unici indagati saranno i criminali di strada, ma non certamente i potenti che commettono reati, quegli stessi potenti contro cui le intercettazioni sono state utili».
Lei ha parlato di stagioni, di quanto l’orientamento politico-culturale influenzi la produzione normativa. Immunità, intercettazioni, processo breve. Quale stagione sta vivendo il nostro paese? Falcone e Borsellino avevano prospettato venti anni fa la possibilità di una relazione fatale tra stato e mafia. Avevano visto bene? Quella sulle intercettazioni o altre riforme ne sono un sintomo?
«Io non penso che esse siano tanto un sintomo di questa relazione. Credo piuttosto che dovremmo leggere questi ultimi episodi dentro un più ampio contesto. Non guardare l’ultimo anello della catena, ma guardare tutta la catena. E’ un processo che non nasce negli ultimi due anni. La magistratura viene percepita come un pericolo perché è come se si fosse rotto una sorta di patto non scritto di non belligeranza. In passato la magistratura ha costituito un pezzo omogeneo di un blocco di potere, ha garantito il mantenimento dell’assetto costituito. Era infatti la stessa magistratura che spesso garantiva un’ applicazione diseguale della legge, forte con i deboli e debole con i forti. E’ cambiata la magistratura ed è cambiato il modo di amministrare la giustizia. E’ andato prevalendo, per ragioni generazionali oltre che politico -culturali, il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge che da principio astratto, scritto sulla Costituzione, è diventato quotidianità nell’applicazione della legge. Ecco dunque che una parte della classe dirigente ha ritenuto di dover realizzare lo stesso risultato del passato non più con la “complicità della magistratura”, ma attuandolo per legge, visto che la magistratura era diventata, diciamo così, ‘politicamente inaffidabile’».
Qual è il grado di coinvolgimento della nostra società nella lotta al fenomeno mafioso? Come reagisce?
«Il problema principale è che l’opinione pubblica è complessivamente disinformata. Con le dovute eccezioni, ha avuto una buona reazione nel senso che si va diffondendo una certa sensibilità antimafia, un movimento vero e proprio, là dove la mafia viene percepita soprattutto come la mafia dei boss latitanti, del racket del pizzo, eccetera. C’è però l’altra faccia della mafia di cui soprattutto l’opinione pubblica nazionale non ha percezione, rispetto alla quale c’è disinformazione e quindi distrazione. Parlo della mafia finanziaria, parlo della mafia dei rapporti con la politica, dei colletti bianchi».
Non ci resta che piangere?
«No, no. È esattamente il contrario. Occorre avere consapevolezza delle difficoltà, ma nessuna rassegnazione. Tutto questo cosa dimostra? Dimostra che se noi cittadini vogliamo rassegnarci a vivere in questo quadro, non rimane che delegare soltanto ai magistrati ed alle forze dell’ordine il compito di contrastare la mafia con esiti inevitabilmente non positivi, non definitivi. Sarebbe come svuotare l’oceano con un cucchiaino. Se invece vogliamo invertire la tendenza dobbiamo essere consapevoli che dall’azione di ciascuno di noi, possono nascere le premesse per la costituzione di un movimento antimafia ampio e forte; soltanto quando si riuscirà a costituire questo movimento l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine potrà dare i suoi frutti».