In Sicilia, pur di arraffare soldi, i politici si sostituiscono alle imprese…

L’ultima scoperta riguarda l’acqua. Per la precisione, Girgenti Acque, la società privata che gestisce il servizio idrico ad Agrigento e dintorni. Si pilotavano assunzioni a gogò, scaricando il costo dei nuovi assunti sulle bollette rifilate ai cittadini. Il dubbio, assolutamente legittimo, è che dietro Girgenti acque – in qualità di soci più o meno occulti – ci siano i politici siciliani.

Da anni ci si interroga del perché, in Sicilia, non si riesce ad approvare una riforma della pubblica amministrazione. Mentre le piccole riforme approvate da Sala d’Ercole in questa materia non vengono applicate o vengono disattese. La risposta a questa domanda è nei fatti, ma si preferisce fai finta di non vedere.

La risposta è che i politici siciliani si sono, di fatto, sostituiti – indirettamente e, in certi casi direttamente – agl’imprenditori. Essendosi sostituiti alle imprese con proprie imprese, i politici siciliani non hanno alcun motivo per facilitare l’apertura di nuove imprese. Quindi non hanno interesse a varare una riforma per la semplificazione amministrativa. Semmai debbono ostacolare l’arrivo di nuove imprese.

In questo scenario, ovviamente, non hanno alcun interesse a pagare i debiti alle imprese. Prima finanziano i settori dei quali sono imprenditori-protagonisti. Poi tutto il resto (ammesso che rimangano soldi).

Ormai, nella nostra Isola, sono gli stessi politici ad esercitare il ruolo di imprenditori. Friggono, mangiano e si arricchiscono.

Il fenomeno affonda le radici nella fragilità storica del sistema produttivo siciliano, in buona parte dipendente dalla spesa pubblica regionale. E inizia, grosso modo, nella seconda metà degli anni ’90. Quando la politica siciliana, analizzando i fondi che, di lì a poco, l’Europa avrebbe dirottato verso le Regioni deboli – e la Sicilia era tra queste – decide di sostituirsi, almeno in parte, a quelli che, fin’allora, erano stati gli attori, chiamiamoli così, di due grandi settori: agricoltura e formazione professionale.

Sull’agricoltura il processo è graduale e molto ben articolato. E’ il tempo in cui imprenditori del Centro Nord Italia decidono di venire a investire in Sicilia. Sarà un periodo di ombre e luci, con la valorizzazione di aziende vinicole e olivicole, ma anche con copiosi fondi pubblici finiti nelle tasche dei privati. Lasciando l’agricoltura siciliana in balìa di problemi strutturali mai affrontati.

Più macroscopico ciò che avviene nella formazione professionale siciliana, dove la politica decide di affiancare le società per azioni agli Enti formativi storici. E dove i politici entrano direttamente nelle società che operano nel settore.

Non è una novità. Dalla fine degli anni ’80 del secolo passato i politici che ‘passavano’ per l’assessorato al Lavoro (che allora gestiva il settore formativo), una volta fuori, come per magico incanto, si ritrovavano titolari, magari insieme con le mogli, di Enti formativi. Finanziati regolarmente ogni anno, per ‘solidarietà di casta’ (o per tacito accordo?) dagli assessori al Lavoro successivi. Alla fine degli anni ’90, come già accennato, il settore si ‘modernizza’ con le società per azioni. Costituite, per l’appunto, dagli stessi politici siciliani di quasi tutti i Partiti.

Il Governo Berlusconi del 2001 imprime una svolta decisiva, almeno in Sicilia, all’entrata in grande stile dei politici nel mondo dell’imprenditoria. Con la scusa della privatizzazione dei servizi – soprattutto acqua e rifiuti – va in scena, naturalmente nella nostra Isola, uno dei più grandi raggiri degli ultimi 50 anni: gli Ato: sigla ‘magica’ che sta per Ambiti territoriali ottimali per la gestione dell’acqua e per i rifiuti.

E’ interessante notare quello che succede nel settore rifiuti, con effetti devastanti che arrivano ai giorni nostri. Disastri finanziari che la Corte dei Conti e la magistratura ordinaria non hanno ancora evidenziato del tutto.

Un servizio che, da sempre, era gestito dai Comuni viene delegato a strane società per azioni costituite dagli stessi Comuni. Questi ultimi avrebbero potuto consorziarsi a costo zero. Invece si opta per cervellotiche le società di capitali tra gli stessi Comuni gestite direttamente dalla politica: gli Ato rifiuti. Sotto il profilo criminale la scelta è ‘geniale’: con il denaro pubblico si costituiscono spa che assumono il personale a ruota libera, senza concorsi (leggere voto di scambio a norma di legge: assunzioni in cambio di voti?); contemporaneamente, i rifiuti vengono smaltiti nelle discariche gestite, per lo più, dai privati.

In realtà, nei primi anni del 2000, in Sicilia, esploderà con grande fragore una ‘guerra per bande’ tra i fautori di ben quattro termovalorizzatori (impianti per incenerire i rifiuti e produrre energia) e i fautori delle discariche.

E’ interessante notare come nessuna delle due fazioni in campo prenda minimamente in considerazione l’interesse pubblico. I termovalorizzatori presuppongono, a monte, una raccolta differenziata dei rifiuti di quasi il cento per cento, per evitare che la combustione di plastica o altre sostanze producano l’emissione di veleni nell’aria (diossina e altro). Mentre le discariche sono follia allo stato puro, se è vero che sotterrando immondizia, a lungo andare, si distrugge l’ambiente (cosa avvenuta a Palermo con la discarica di Bellolampo, dove si registra l’inquinamento della falda: un inquinamento da percolato che ha raggiunto, nel silenzio generale, il mare del quartiere Acquasanta; per non parlare dei costi esorbitanti per trasportare il percolato).

Alla fine, questa è storia, vincerà la ‘band’ delle discariche, grazie anche a un quanto mai opportuno pronunciamento di una magistratura europea (anche l’Unione Europea, quando vuole, scopre la legalità…). Ovviamente, dal 2001 ad oggi, i passi avanti nel sistema dei rifiuti fatti dalla Sicilia sono pochissimi. Ci ritroviamo con una raccolta differenziata che non supera il 10 per cento (ma è un dato abbondantemente sovrastimato e tutt’altro che uniforme), con i privati che fanno il bello e il cattivo tempo, spesso in combutta con gli ambientalisti. E con circa 12 mila assunti negli Ato rifiuti che, manco a dirlo, chiedono improbabili ‘stabilizzazioni. E con un indebitamento degli stessi Ato rifiuti (e quindi dei Comuni siciliani) che, al 31 dicembre 2011, ammontava a 1,3 miliardi di euro (da allora in poi il dato viene tenuto nascosto: della serie, non aprite quella porta…).

Di fatto, con la berlusconiana privatizzazione del servizio rifiuti, i privati si sono arricchiti, i Comuni si sono indebitati (in realtà, la metà dei Comuni siciliani né al dissesto finanziario non dichiarato), l’immondizia non raccolta inonda mezza Sicilia e i cittadini siciliani pagano la Tarsu più cara d’Italia.

Non è andata meglio con l’acqua. Dove la follia è stata ancora maggiore, se è vero che ad una società privata – Sicilacque – è stata ceduta buona parte delle infrastrutture idriche realizzate in Sicilia negli ultimi 50 anni. Attorno a Siciliacque orbitano società private con dentro politici siciliani. Sono quelle società che assumono o personale (in cambio di voti?) per poi scaricare sulle bollette i costi aggiuntivi.

Di fatto, come per i rifiuti, un servizio pubblico è stato assegnato ai privati (con dentro i politici). Con il risultato che l’acqua costa il triplo rispetto alla precedente gestione pubblica e, in alcuni casi, non è nemmeno potabile.

Guarda caso, in questi giorni, assistiamo al tentativo, da parte della politica siciliana – e segnatamente el Governo regionale di Rosario Crocetta – di proseguire con la gestione idrica nelle mani dei privati. Il tutto in barba al referendum nazionale del giugno del 2011, che ha sancito la vittoria dei cittadini italiani che, in massa, chiedono il ritorno alla gestione pubblica dell’acqua.

La politica siciliana, nel tentare di proseguire con la gestione privata dell’acqua, sta solo difendendo se stessa e i propri sporchi affari. 

Sempre in merito al trasferimento della gestione di servizi dalle imprese alla politica siciliana si segnala la creazione, a partire dai primi anni del 2000, di una quarantina di società pubbliche regionali (a queste vanno aggiunte le società pubbliche comunali e provinciali delle quali si perde il conto).

Tutte società costituite con il denaro pubblico. E tutte gestite con criteri non imprenditoriali, ma politici. E quasi tutte in perdita. E tutte con assunzioni per chiamata diretta operate dalla politica. Quasi tutte operanti con commesse di Regione, Comuni e Province.

Oggi la Regione scopre che Sicilia e Servizi – una delle tante società pubbliche del firmamento regionale – sperpera denaro pubblico. Cosa avrebbe fatto Sicilia e Servizi negli anni precedenti?

La realtà è che la Regione siciliana è ormai ‘tecnicamente’ al ‘verde’. Sicilia e Servizi chiuderà i battenti non perché l’attuale Governo regionale di Rosario Crocetta sta ‘moralizzando’ la vita pubblica siciliana, ma perché non ci sono più soldi e il Governo regionale deve fare di necessità virtù.

Nel disastro delle società pubbliche siciliana vanno segnalati due elementi. Nel 1998 la regione avviava la liquidazione degli Enti economici storici: Ems, Espi e Azasi. Mentre la liquidazione dei tre Enti e delle società collegate agli stessi Enti iniziava la Regione – che nel 1998 aveva detto ‘basta’ alla “Regione imprenditrice” – iniziava la costituzione di quelle che, di lì a pochi anni, diventeranno le oltre 40 società pubbliche!

Con il risultato che, da oltre un decennio, nello stesso Bilancio regionale, si pagano i costi delle eterne liquidazioni dei vecchi Enti regionali (in media, 500 mila euro all’anno) e, contemporaneamente, i costi delle società regionali con le quali – questo non finiremo mai di ripeterlo – la politica siciliana si è, di fatto, sostituita alle imprese con il giochetto degli affidamenti in house.

Il secondo paradosso lo ha messo a fuoco qualche anno fa il sindacato dei Cobas regionale. Dimostrando, dati alla mano, che le società regionali sarebbero costate molto meno se tutto il personale fosse stato assunto dalla stessa amministrazione regionale.

In altre parole, la presenza del personale non ‘regionalizzato’ nelle società pubbliche della Regione serviva per giustificare il costo abnorme dei ‘manager’ o presunti tali, delle stesse società regionali. Per la politica siciliana, doppio guadagno: assunzioni nelle società disposte dalla stessa politica, senza concorsi, e probabile divisione del ‘malloppo’ con i ‘presunti manager’. Insomma, come si dice dalle nostre parti, tutto a ‘u scinniri…

Anche nel turismo, di fatto, la politica si è sostituite all’imprenditoria. Lo ha fatto direttamente, spesso entrando a far parte di società che operano nel settore turistico. Lo ha fatto indirettamente, segnalando i propri ‘amici’ nella realizzazione di spettacoli. E lo ha fatto e indirettamente con la gestione dei fondi pubblici per la promozione. L’inchiesta della magistratura sul cosiddetto ‘Sistema Giacchetto’ non esclude la politica: anzi.

Del resto, la vicenda del Ciapi di Palermo dimostra proprio che Giacchetto era una pedina, certamente importante ma pur sempre pedina, di un sistema che era ideato dalla politica. La stessa gestione dei fondi dell’assessorato al Turismo – regionale ed europei – era politica.

C’era il coinvolgimento di un sistema di imprese che operano nella pubblicità, ma la ‘testa’ di tutto questo sistema è politica. Risorse finanziarie che dovrebbero andare al sistema delle imprese (e, nel caso della pubblicità, agli organi di informazione), finiscono in buona parte, nelle tasche di politici.

Si può discutere sul fatto se è giusto che i fondi per promuovere l’immagine della Sicilia debbano essere spesi, in parte, nella nostra Isola. E si può e si deve discutere di criteri più equi di quelli seguiti fino ad oggi nella divisione delle risorse tra le varie testate giornalistiche. Ma un dato è certo: chi dovrebbe amministrare questi soldi – cioè i politici – non dovrebbero intascarli. E invece…

La presenza della politica, in veste ‘imprenditoriale’, non ha risparmiato la cultura. Qualche anno fa gli editori siciliani lamentavano la presenza di volumi dati alle stampe con fondi regionali. Con particolare riferimento all’assessorati ai Beni culturali.

Sarebbe interessante capire come vengono dati alle stampe certe pubblicazioni regionali, se si procede con evidenza pubblica i ‘liberamente’.

Anche nel campo delle energie alternative c’è il dubbio della presenza dei politici (oltre che della mafia, come già accertato nel Trapanese nell’eolico da un’indagine della magistratura). E’ il caso del più grande impianto d’Europa, che dovrebbe sorgere tra Gela e Butera. Un progetto faraonico, da 250 milioni di euro. Circa 80 MW da realizzare su 230 ettari di serre.

Tra i tanti dubbi di quest’operazione c’è anche quello che, dietro, ci sia la solita politica siciliana.

…e Confindustria Sicilia ci ‘bagna il pane’…

 

 

 


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