La Commissione antimafia dell'Ars ha presentato una relazione sulla gestione di immobili e aziende che sono state tolte alla mafia. «Una prassi stanca e poco felice», commenta il presidente. Molte difficoltà, pochi risultati e qualche proposta
Il quadro preoccupante dei beni confiscati in Sicilia Fava: «Il primo limite è mancanza di volontà politica»
«Una prassi stanca e poco felice». È con queste poche ma lapidarie parole che la Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana definisce l’applicazione della legge Rognoni-La Torre per la gestione dei beni confiscati alla mafia. In quasi 200 pagine di relazione – tra analisi delle criticità e proposte per superarle – l’organo presieduto dal deputato Claudio Fava spiega come e perché a non decollare, a fronte di numerosi sequestri e confische, sia la fase di restituzione dei beni alla collettività. Prima causa, su tutte, «l’improvvisazione delle istituzioni e la farraginosità della burocrazia». Dagli immobili abbandonati e vandalizzati alle aziende che non riescono a stare sul mercato con la guida dello Stato e la conseguente perdita di posti di lavoro. Questioni che sarà possibile invertire solo con «un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino ad ora non c’è stato».
Le difficoltà principali
Protagonisti della filiera dei beni dalla loro sottrazione alla criminalità fino al loro riutilizzo sono l’ufficio Misure di prevenzione dei tribunali, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (un nome che rispecchia la complessità della materia), gli amministratori giudiziari prima e i coadiutori giudiziari dopo, le prefetture e gli enti locali spesso beneficiari dei beni. Nel caso in cui non decidano di assegnarli alle associazioni. Ognuno di questi passaggi manifesta dei buchi, spesso dovuti alla scarsa comunicazione tra tutti gli attori. A fare da collante dovrebbero essere i prefetti con i tavoli provinciali composti dai rappresentati delle categorie e delle istituzioni coinvolte. Il cui parere è obbligatorio per dotare gli amministratori di mezzi utili per far sopravvivere le aziende confiscate, ma la loro istituzione rimane facoltativa. Uno dei tanti cortocircuiti della materia.
Che fa il paio con i rapporti complicati con le sedi distaccate dell’agenzia nazionale – Reggio Calabria per la Sicilia orientale e Palermo per la parte occidentale dell’Isola – definiti «del tutto inesistenti» da Giuseppe Di Natale, portavoce del Forum del Terzo Settore della Sicilia, secondo cui «ogni volta che ci si rivolge agli uffici siciliani dell’Agenzia per richiedere un minimo di informazioni rispondono sempre che hanno bisogno dell’autorizzazione dell’Agenzia nazionale». Dal canto suo, l’Agenzia, fondata nel 2010, rilancia con una cronica carenza di personale: 69 unità a fronte delle 200 previste dalla legge. Problema in parte condiviso dai tribunali, dove però si aggiunge la spinosa questione delle nomine degli amministratori giudiziari. Esplosa con l’indagine a carico della giudice palermitana Silvana Saguto e che, a livelli più generali, si concretizza con la necessità di dover mediare tra la concentrazione di incarichi nelle mani di pochi professionisti e la pesca casuale da un albo senza alcun elemento circa l’affidabilità e le capacità dei soggetti. Oggi solo avvocati o commercialisti, quindi spesso senza competenze specifiche – specie manageriali – nella gestione di aziende.
I (pochi) risultati
Al 31 dicembre 2019, la Sicilia ospita quasi il 35 per cento dell’intero patrimonio immobiliare in gestione all’Agenzia: 5.677 cespiti di cui il 68 per cento già confiscato e non solo sequestrato. Per lo più i beni vengono affidati agli enti locali e non mantenuti nel patrimonio dello Stato: in teoria per garantirne un utilizzo con una reale ricaduta sulla società; in pratica, però, i Comuni non decidono mai la loro destinazione nei due anni previsti dalla legge e così i beni finiscono per deperire, vandalizzati o occupati. È la situazione della metà dei beni siciliani. E non va meglio con le aziende: sempre nel 2019, ne risultano 780 in gestione – di cui solo 39 attive -, mentre su 459 destinate, solo 11 non hanno come previsione la liquidazione. Sorte problematica dal punto di vista occupazione, eccezione fatta per le cosiddette aziende cartiere, ossia scatole vuote che si punta a dismettere. Per concentrarsi piuttosto sulle aziende che possono farcela ma che hanno necessità di trovare un modo per stare nel mercato legale, considerato l’ingiusto vantaggio di cui hanno goduto durante la gestione mafiosa, calcolato in un «risparmio di legalità intorno al 30 per cento».
E in questo non aiutano di certo le banche che, come spiegato da Luciano Modica, amministratore giudiziario di Catania, nella valutazione di erogazione di un muto si attengono scrupolosamente all’indicazione di una banca dati della Camera di commercio che definisce le aziende confiscate, per la loro stessa natura e a prescindere dalle performance, «azienda non meritevole di affidamento». Forse perché ormai tutti conoscono la regola non scritta dei beni sottratti alla criminalità: cominciare il loro percorso di legalità nel peggior modo possibile. Nel caso di un immobile, venendo vandalizzato quando non direttamente occupato: spesso dagli stessi ex proprietari, anche sotto il naso dell’Agenzia che spesso non ha alcuna contezza dei beni e nemmeno le chiavi per accedervi, o da perfetti sconosciuti. Nel caso di aziende, invece, con una dichiarazione di guerra che comincia con la fuga di tutti i vecchi clienti. Metodi a cui lo Stato e la politica non sono ancora riusciti a opporre soluzioni efficaci.
Buone prassi e proposte
Qualcosa si è mosso dal basso, con esperienze virtuose di rete tra beni confiscati, che rimangono però iniziative isolate e non di sistema. O così come l’innovativo bando dell’Agenzia che per la prima volta prevede di assegnare alcuni immobili direttamente al terzo settore, senza passare dai Comuni: almeno i beni, s’intende, non in condizioni pietose né occupati, circostanza che in più casi ha visto le associazioni costrette a sopralluoghi in case probabilmente ancora abitate o, massimo paradosso, in un tour guidato dallo stesso soggetto a cui il bene è stato confiscato.
Per risolvere almeno in parte questi problemi, la commissione lancia una serie di proposte. Su tutte, la necessità di appositi fondi – regionale e nazionale – oltre che la possibilità di utilizzare le somme oggetto di sequestri per la ristrutturazione dei beni; la maggiore professionalizzazione – specie in ottica manageriale – degli amministratori e coadiutori giudiziari; un maggiore coordinamento tra gli enti coinvolti, con uno specifico ruolo della Regione Siciliana; la creazione di una rete virtuosa tra aziende confiscate e tra queste e lo Stato, per uno scambio di beni, servizi e commissioni che ne garantiscano la sopravvivenza.