Il possibile filo che lega gli omicidi alla Megara Nel delitto Villa una sanzione di Nitto Santapaola

Il pomeriggio del 12 febbraio del 1992, un uomo esce da una villetta in via Vizzini, nel quartiere San Giorgio. È andato a casa di uno dei figli, che da lì a un mese gli regalerà una nipotina. La bambina, però, non la vedrà mai. Pochi istanti dopo avere varcato il cancello, una raffica di proiettili lo raggiunge alle spalle. Poi qualcuno si avvicina e lo finisce, sparandogli alla nuca. Il corpo immobile sull’asfalto è di Sebastiano Villa, un dipendente delle Acciaierie Megara, dove si occupa di selezionare i metalli. Nelle tasche ha oltre tre milioni di lire in banconote che nessuno però tocca. D’altronde, non si tratta di una rapina.

Chi si interessa al caso sin dal primo momento non può non tenere conto di una cosa: quell’omicidio è avvenuto poco più di un anno dopo da un altro fatto di sangue che aveva interessato la Megara. Il 31 ottobre 1990 Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio, l’amministratore e il responsabile del personale della azienda, erano stati trucidati a pochi passi dalla stazione ferroviaria di Bicocca. Qual è, se c’è, il filo che collega i due agguati?

Da quasi trent’anni, questa domanda accompagna la vita dei familiari delle vittime di quello che venne definito un «delitto eccellente». Di recente l’omicidio di Villa è finito al centro dell’inchiesta Thor che ha acceso i riflettori su una lunga serie di delitti che ha insanguinato le strade di Catania, tra fine anni Ottanta e gli anni Duemila. Nelle mani dei magistrati ci sono le dichiarazioni di diversi pentiti, tra i quali spicca Francesco Squillaci. Martiddina, diventato uomo d’onore partendo da Piano Tavola. È proprio lui ad autoaccusarsi dell’omicidio di Villa, descrivendo i preparativi dell’agguato e un primo tentativo andato a vuoto. «Salimmo a bordo di una Fiat Uno bianca, quattro porte», racconta Squillaci. Sull’automobile insieme a lui ci sarebbero stati Francesco Maccarrone, anche lui con il compito di aprire il fuoco, e Aurelio Quattroluni. Dietro, al volante di altre vetture, Umberto Di Fazio, Natale Di Raimondo e Filippo Branciforte. Tutti appartenenti al braccio armato della famiglia catanese di Cosa nostra.

A ordinare la spedizione sarebbe stato, infatti, Nitto Santapaola. «‘N favuri o’ ziu», lo definisce Squillaci. Ma qual è il motivo che porta l’uomo più potente della mafia etnea a chiedere l’uccisione di un operaio? Martiddina lo racconta ai magistrati a settembre 2018, nel corso di un’interrogatorio che non è confluito nell’ordinanza Thor ma di cui MeridioNews ha preso visione. «Dopo l’omicidio (di Villa, ndr), Filippo Brancifore mi dice che la persona in questione era vicino al gruppo Sciuto Tigna, a cui dava proiettili. Si metteva a disposizione e forse era implicato nel duplice omicidio di Vecchio e Rovetta». Implicato nel senso, specifica Squillaci, che era a conoscenza di quel «fatto grave». L’aggettivo non è casuale: l’agguato del 1990, secondo il collaboratore, avviene fuori dai radar di Cosa nostra. Nessuna pianificazione da parte della famiglia Santapaola-Ercolano, che dal 1983 percepiva il pizzo dall’acciaieria.

Per questo motivo, dopo l’assassinio di Vecchio e Rovetta le cosche cercano di individuarne i responsabili. A interessarsi, spiega Squillaci, sono anche figure del calibro di Piddu Madonia e i palermitani vicini a Bernardo Provenzano. Il tentativo si rivela sostanzialmente infruttuoso, anche se un’idea di ciò che potrebbe essere accaduto Squillaci ce l’ha. L’uomo l’ha appresa mentre si trova in carcere ad Agrigento: il suo compagno di cella, Mario Buda, gli spiega che l’imprenditore lombardo e il dirigente acese sono stati uccisi perché, nell’ambito di una nuova gestione del personale, compreso quello dell’indotto, avevano creato problemi a un tale Rapisarda, imprenditore vicino al boss degli Sciuto Tigna Orazio Privitera. Tanto sarebbe bastato, nella ricostruzione di Martiddina, per spingere Santapaola, al cui orecchio evidentemente quella voce sarebbe arrivata, a chiedere l’omicidio di Villa.

«Occhiu vivu, chistu ca camina accavallatu (Stai attento, questo cammina armato, ndr)». Squillaci ai magistrati ricorda il consiglio datogli da Filippo Branciforte prima di partire verso San Giorgio. Parole che, a delitto compiuto, trovano conferma nell’automobile della vittima. Qui, gli uomini della Squadra mobile trovano due fotografie che ritraggono Villa mentre imbraccia un fucile a pompa e una mitraglietta. 

La versione di Squillaci, il filo rosso che lega gli omicidi del ’90 e del ’92, ricalca quanto dichiarato in due momenti diversi – prima nel 1995, poi nel 2008 – da un altro celebre collaboratore di giustizia, l’ex boss degli Sciuto Tigna Giuseppe Ferone. A essa, tuttavia, i magistrati che si sono occupati dell’inchiesta Thor accostano le ricostruzioni di altri pentiti che, pur con meno dettagli, danno all’assassinio di Villa una lettura diversa. Ancora più privata e senza alcun coinvolgimento di Santapaola. L’uomo sarebbe stato ucciso per volere di Branciforte, per via di contrasti di natura familiare. Il killer, infatti, era fratello della nuora di Villa, la donna che da lì a poco l’avrebbe reso nonno. «Era stato Branciforte a volere la morte, perché lo vedeva troppo legato alla sorella», ha detto ai magistrati Fortunato Indelicato.


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