Torna, puntuale come uno Swatch, ad accogliere a braccia spalancate il popolo italiano in ritorno dalle vacanze, Giuseppe Avati, in arte Pupi.
Il papà di Giovanna
Torna, puntuale come uno Swatch, ad accogliere a braccia spalancate il popolo italiano in ritorno dalle vacanze, Giuseppe Avati, in arte Pupi. La sua nuova fatica, “Il papà di Giovanna”, rappresenta una carta preziosa del metaforico poker d’assi composto dalle ultime uscite di quattro tra i registi attualmente più quotati del cinema italiano (le altre carte essendo costituite da “Un giorno perfetto” di Ozpetek; “Gomorra” di Matteo Garrone; “Il Divo” di Sorrentino). E’ un ritorno in salsa agrodolce, il suo; un ritorno alle strade assolate della commedia di stampo sentimental-popolare; strade dalle quali si era allontanato con “Il Nascondiglio”, uscito l’anno scorso (il quale, dal suo canto, aveva rappresentato un altro ritorno: quello al sempre caro cinema Horror, genere col quale aveva debuttato nel lontano 1968). Commedia sentimentale, dicevamo… ma con qualche variante. Partiamo dalla trama: durante la seconda guerra mondiale, Michele/Silvio Orlando (già vincitore della Coppa Volpi come miglior interpetazione maschile) è un professore di disegno, nonché il papà, possessivo ed eccessivamente scrupoloso, di Giovanna/Alba Rohrwacher (alla quale potremmo forse dedicare due terzi della recensione): una ragazza timida, eccessivamente chiusa in sé stessa, le cui azioni denotano un certo squilibrio mentale. Accortosi delle attenzioni rivolte alla figlia da un suo studente, il quale rischia la bocciatura, Michele riesce, tramite la garanzia della promozione, a far sì che le sporadiche attenzioni del giovane diventino qualcosa di più profondo; il tutto, nella speranza di offrire un futuro migliore alla figlia, la cui estrema solitudine gli è causa di mille patemi d’animo. Ma il ragazzo mantiene una relazione parallela (e, naturalmente, meno forzata) con una studentessa dello stesso istituto; ed è proprio quando quest’ultima viene trovata morta nella palestra della scuola, che per Giovanna e per suo padre iniziano i guai. Michele, un disperato San Francesco in miniatura, una minuscola Madre Teresa al maschile, arriverà a spogliarsi di tutto ciò che possiede, financo dell’ultimo briciolo di dignità, pur di garantire una vita migliore alle persone che ama con tutto sé stesso: sua figlia e sua moglie (la sempre stupenda Francesca Neri); quest’ultima, infatti, sarà spinta dallo stesso Michele tra le braccia di Sergio/Ezio Greggio (qui al suo primo ruolo drammatico), del quale è da sempre innamorata (e ricambiata). E’ proprio la figura tragicomicamente stoica di Michele a rubare più di una lacrima (forse simbolica, ma comunque lacrima) allo spettatore, ignaro di fronte a cotanta abnegazione. E’ proprio la sua figura magnificamente altruista a suscitare una reazione perplessa in chi osserva e, forse, a porsi quale potenziale nuova antitesi dell’uomo neo-borghese e del suo crescente attaccamento alla sua proprietà (se il film fosse ambientato ai giorni nostri, avrebbe suscitato uno sbigottimento ancor maggiore). Il personaggio di Giovanna, dal suo canto, commuove per la sua estrema fragilità, per il suo attaccamento senza speranza alla sua realtà interiore, per la sua ferma quanto folle fiducia in un amore che non è mai realmente esistito. Giovanna è l’assassina più tenera che il cinema abbia mai conosciuto; nessun dito puntato contro lei, soltanto la compassione e, forse, l’immedesimazione in lei da parte degli spettatori più sensibili. L’attrice che la interpreta, la giovane Alba Rohrwacher, è la nuova punta di diamante del cinema italiano. Vincitrice del David di Donatello per la sua interpretazione in “Giorni e Nuvole” di Silvio Soldini, nel 2007 si è vista assegnare ruoli di rilievo in film acclamati (tra gli altri: “Mio Fratello è Figlio Unico” di Luchetti e “Caos Calmo” di Grimaldi), vedendosi spianata, ora, la strada per il successo. Ed è lei, col suo pallore acerbo ed alieno, con la sua figura spigolosa e caustica, a dare lustro alla pellicola, a muovere i fili del suo personaggio in modo tanto appassionato da finire col fondersi con esso, con la spontaneità di una farfalla o di un bambino, senza lasciar trasparire un minimo cenno di finzione cinematografica. E si insinuano, alla fine, nell’inconscio dello spettatore, lei e la sua umana follia; follia di qualunque essere umano si rifugi nei suoi sogni, anche solo per un attimo. Certo, il film ha i suoi limiti, i quali risiedono tanto nella sceneggiatura quanto nel soggetto: la seconda metà del film è, infatti, decisamente poco scorrevole, una volta spentasi l’onda violenta del coup-de-théâtre. D’altro canto, un po’ forzata risulta la caduta di Giovanna nel baratro della follia, da appena percettibile a ridicolmente palese; da una follia che lascia intatte le capacità discorsive ad una follia che riduce ampie porzioni del discorso ad un “piscio-cacca-merdoso”, il tutto nel giro di pochi giorni… Ma ad un film che offre, sul piatto d’argento di una buona regia, due personaggi dalla bellezza tanto ficcante quanto commovente, beh, possiamo perdonare tutto. O quasi.