Riprendiamo, da La Sicilia del 3 dicembre 2007, quest'intervista con Amiri Baraka, il «poeta del popolo del Blues» protagonista la scorsa settimana di un applaudito reading ai Benedettini
Il jazz è l’arma della Resistenza dei neri americani
Baffi e barba sono diventati fiocchi di neve sulla pelle nera, oggi a 73 anni, le spalle un po’ «incassate» a mo’ di cucchiaio rovesciato, ma quegli occhi planetari che puntano l’anima della storia e la storia dell’anima, sono gli stessi di sempre. Da quando Amiri Baraka (già LeRoi Jones, «un nome da schiavo» che l’imam di Malcolm X gli convertì in Baraqat e che poi, pensando alla Tanzania, egli stesso traduceva nell’equivalente swahili) quando quel geniaccio, eclettico e prolifico a penna e a parole, a nemmeno trent’anni era il vero, sanguigno, tetragono guru della Rivoluzione culturale afroamericana di Blues people, il popolo del blues su cui molti di noi perdevano anima e cervello dopo che Einaudi lo licenziava nel ’63 (oggi recuperato da Shake). Ed è a quel frastagliatissimo popolo del blues, catanese e non solo, che Baraka si è consegnato, stretto tra emozioni rapprese e sonorissimi applausi, e grazie ad uno speciale consorzio di volontà e idee. Da un canto, “Altro Giezz” di Andrea Pennisi – non senza la complicità di Ame, ambasciate e centri culturali stranieri – dall’altro, i Circuiti culturali, la Facoltà di Lingue del nostro ateneo e il Dottorato di ricerca in Studi inglesi e angloamericani.
Dunque LeRoi-Amiri. Uno schizzo umanissimo di «disumana» creatività. E’ poeta, è scrittore (e drammaturgo, non foss’altro che per quell’unico, deflagrante Dutchman and the slave, l’olandese e lo schiavo, del 1964) è attivista, è docente universitario. Ed è musicista e musico per forza, «entomologo» della musica nera nell’America bianca.
Quanti luoghi comuni, sul blues, Mr Baraka…
«Il peggiore è pensarla musica marginale in termini di espressività ed intelligenza umana e invece è l’esatto contrario! Ma se chi controlla la realtà, in Usa, continua a piazzare blues e jazz in contesti ed appuntamenti che li sminuiscono scientemente, è naturale che la gente la consideri una musica “minore”».
Per molti musicisti della Romania di Ceausescu ed altri paesi «satelliti» dell’Urss di allora, il jazz fu la vera Resistenza. Oggi è ancora la sola democrazia possibile?
«Sì, se si tratta di jazz avanzato e progressivo che riesce a farsi carico di sentimenti, emozioni, lotta quotidiana per una coscienza d’essere al mondo. Il jazz commerciale che cerca compromessi, divora la sua stessa democratica profondità».
Il Black Art Movement. Un solo anno di vita ma una leggenda che dura una vita.
«Tutto cominciò prima dell’assassinio di Malcolm X e noi che ne eravamo parte ci facevamo chiamare Malcolm’s children, eravamo tutti suoi figli. Da un ambiente prettamente bianco come il Greenwich Village ci spostammo a Harlem, affittammo un posto in cui chiamammo artisti neri da tutto il mondo a far parte di quella comunità. Ma non è finita. Succederà di nuovo. Succederà che qualcuno si renderà conto che è quella – è questa – la vera rivoluzione culturale. Volevamo un’arte nera che uscisse fuori dalla clandestinità, che ci liberasse dalla non-coscienza: il punto era creare un’entità che avesse un’influenza a lunga gittata».
Che cosa si è spezzato, in lei, dopo la morte di Malcolm X?
«All’epoca pensammo che sarebbe scoppiata la guerra. Prima di
lui, del resto, avevano fatto fuori John Kennedy: diventò nostro dovere resistere in modo tagliente. Ci rendemmo conto che volevano eliminarci e l’omicidio di Dr King, tre anni dopo, fu la conferma. Da allora ci sono alti e bassi ma oggi ci serve una resistenza d’alto livello: esiste ancora un primato bianco che dev’essere ridimensionato».
Lo stesso del “low-ku” (in sarcastica opposizione a “hayku”): Se Elvis è un re, chi è James Brown, Dio?
«I bianchi sono così. Gli hanno insegnato che esiste una sola verità ed è la loro. E quando la gente si sente al sicuro diventa ottusa, sonnolenta, insensibile. Perciò è salutare e urgente screditare quell’unico insegnamento e creare un’alternativa».
Dopo il viaggio a Cuba, la letteratura non fu più sufficiente. Poeta ancora ma ancora più “politico”. E dopo l’11 settembre?
«Non è colpa dell’Islam ma di tutti coloro che annientano l’umanità degli altri, in Africa o in Medio Oriente. Se violi la dignità umana, aspettati che quelli possano farlo a te, prima o poi».
Crede che l’afrocentrismo o il separatismo abbia ancora credibilità?
«Ma noi siamo già separati! Lo siamo dalla schiavitù, dalla segregazione, dalla discriminazione. La questione oggi resta la lotta per l’eguaglianza dei diritti da cittadini americani: autodeterminazione, diritto di creare le cose di cui hai bisogno senza aspettare che il potere capisca e si muova. Il punto è che noi neri viviamo questo dualismo ogni momento del nostro esistere. Siamo neri ma siamo americani ma mai abbastanza perché gli americani americani ci riconoscano».
Dove sono i leader neri, oggi?
«Non puoi perdere Malcolm e King e trovarne altri due. Loro erano cresciuti sul “suolo” dell’anima della gente. Ed è la gente che deve pretendere, oggi, dei leader. Solo allora li avrà. Spero che i miei figli siano capaci di alzare la testa e sedersi a ragionare. Parlai con Martin Luther King una settimana prima che l’ammazzassero, diceva che era necessario un fronte unito. E Malcolm, con cui parlai fino ad un mese prima della sua morte, pensava la stessa cosa. Organizzarsi con le istituzioni, litigare fino all’ultimo ma fino all’ultimo restare insieme».
E’ questo il sogno che ha fatto?
«Macché sogni, restiamo con i piedi per terra. Quello di King fu un gran discorso, nessuno è stato arrestato più di lui, sbattuto dentro di continuo, lui che parlava di pace e d’amore…».
Nobody sings anymore. Lo scriveva nel 1959 ch’era ancora LeRoi Jones. Davvero, nessuno canta più?