Dopo l'unità dì'Italia è stato considerato a lungo ostacolo al processo di italianizzazione. Ma nel corso dei secoli il vernacolo si è arricchito di un patrimonio linguistico che poche lingue possono vantare. Da buatta ad arricugghirisi, da addunarisi a taliari, passando per mischinu e vastaso: le parole parlano della storia
Il dialetto siciliano, risultato di culture diverse Dai normanni agli arabi, cosa resta nelle parole
Considerato un ostacolo al processo di italianizzazione all’indomani dell’unità nazionale, schiacciato poi dalla scuola, dalla radio e dalla televisione, che hanno indubbiamente contribuito alla diffusione della lingua italiana, il dialetto nel corso degli anni ha rischiato più volte la scomparsa dal repertorio linguistico nazionale. Il vernacolo siciliano, definito da Camilleri come «la lingua degli affetti», in quegli anni è rimasto vivo soprattutto in ambito familiare. Invece a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso si è assistito a una riconsiderazione del dialetto e della cultura dialettale.
«Finché la percentuale di analfabetismo in Italia era alta – afferma Giovanni Ruffino, presidente del centro di studi filologici e linguistici siciliani – la scuola respingeva e mortificava i bambini dialettofoni. Il dialetto appariva come la bestia nera perché era considerato come un impedimento all’emancipazione sociale, un intralcio che non permetteva di apprendere correttamente l’italiano. Un concetto sbagliato anche didatticamente. Quando la popolazione si è via via impadronita dell’italiano, il dialetto ha fatto sempre meno paura fino a determinarne una risorgenza».
Una riscoperta che, paradossalmente, è cresciuta all’interno di una società standardizzata e globalizzata, sintomo che gli idiomi locali oggi non vengono più considerati come la lingua dei ceti bassi o come sinonimo di ignoranza. «Questa rivalutazione della cultura dialettale si deve anche a un desiderio di identità culturale – aggiunge Ruffino – che ha messo fine alla dialettofobia. Nelle scuole, nelle università, nelle famiglie e soprattutto nei nuovi mezzi di comunicazione di massa il dialetto è fortemente presente. Questo significa che si è aperta una nuova fase, seppur in forma diversa rispetto al passato, e che nel corso degli anni si è irrobustita. Questa riscoperta non è da intendersi in contrapposizione alla società globale nella quale viviamo; identità regionale, nazionale ed europea camminano insieme pur muovendosi su tre livelli differenti».
Calpestata, in secoli di storia, da arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi, spagnoli e francesi, la terra siciliana ha assorbito moltissimi vocaboli dalle lingue con le quali è venuta in contatto, conservando nel suono, più che nella grafia, la testimonianza della veicolazione orale, che si mantiene pressoché intatta, ancora oggi, in parole fondamentali del siciliano. Un idioma che, nel corso dei secoli, si è progressivamente arricchito di un patrimonio linguistico che nessun’altra lingua può vantare.
Ancora oggi risuona la lingua dei normanni, e dei loro discendenti, in parole come: buatta (lattina, contenitore per alimenti, da bouatte); cuttigghiara (pettegola da courtyard = cortile); arricugghirisi (rientrare, da recollirse); arriminari (mescolare, da remenar); banna (lato, da cui ‘ddabbanna (là) e ‘ccabbanna (qua), da banda).
Dai popoli iberici, ovvero aragonesi, castigliani e catalani conserviamo parole come: addunarisi (accorgersi, da adonar-se); affruntarisi (vergognarsi, da afrontar-se); anciova (acciuga, da anxova); pignata ( pentola, da piñata).
Anche la lingua greca ha lasciato segni indelebili della propria dominazione in parole come: crastu (montone, da kràstos); annacàri (dondolare da naka); ‘ntamatu (imbranato, da thauma); tuppuliari (bussare, da typtò); vastaso (maleducato, cafone da bastazu).
Dal latino, la lingua da cui deriva direttamente il siciliano, abbiamo: gràsciu (grasso, sporcizia da crassus); prèscia (fretta, da pressa = premuta); saìmi (grasso, da sagina) antùra (poco fa, da ante horam); oggiallannu (lo scorso anno, da hodie est annus).
O ancora dall’arabo: mischino (poveretto, da miskìn); taliari (guardare, da talà).
La radice francese è riscontrabile nel quotidiano in parole come: accattari (comprare, da acheter); addumari (accendere, da allumer); parrinu (prete, da parrin); picciotto (ragazzo, da puchot).
Sono solo alcune delle parole che testimoniano un prezioso patrimonio storico e linguistico dal quale gli studiosi attingono informazioni importanti per lo studio dell’evoluzione delle lingue, ma, al contempo, come affermava Pirandello, testimoniano che la parola del dialetto è la cosa stessa, perché se la lingua esprime il concetto, il dialetto esprime il sentimento.