Centinaia di persone entusiaste in fila per entrare nel regno del mobile fai-da-te. Un successo straordinario, ma ampiamente annunciato. Il docente di comunicazione e pubblicitario Salvo Scibilia ci spiega perché le tecniche di marketing del colosso svedese hanno fatto presa anche da noi. Ora però bisogna affrontare le brugole
Il catanese alla prova Ikea
L’elefantino “Klappar”, è un simpatico peluche venduto da Ikea. Ha conquistato tutta la città di Catania con un cartellone pubblicitario: «Voi lo chiamate Liotru, noi Klappar, ma l’importante è intendersi», recita l’headline dello spot. Sembra quasi che l’elefantino sia stato «creato apposta per Catania». Ma Klappar non assomiglia per nulla al Liotru. Intanto è più chiaro di carnagione, cosa che si potrebbe spiegare con l’esposizione al sole perpetua dell’elefante catanese e l’origine nordica del suo consimile, ha le orecchie più grandi, la proboscide più lunga e in generale proporzioni totalmente differenti dal simbolo catanese. Poi non ride, è serio ma non triste. Diciamo che ha una faccia un po’ anonima, come tutti i prodotti da supermercato. Eppure Klappar è un successone. Da questo nasce una domanda: come ha fatto Ikea a far subito breccia nei cuori dei catanesi, e con un elefantino anonimo? Salvo Scibilia, pubblicitario e docente di comunicazione, sul fenomeno “catanese” di Ikea dice, in sostanza, che “non è catanese”. Molto catanese è come la “questione Ikea” è stata trattata dai quotidiani, con le polemiche di Lombardo per la mancata assunzione degli ex-Cesame (che, da una nota di Ikea, pare siano stati assunti in 10).
«Ci sono spiegazioni nelle tecniche di marketing molto semplici, ma nessuno sa interpretare questi fenomeni», ci dice al telefono.
La motivazione del successo di Ikea, è quindi solo ed esclusivamente l’applicazione di tecniche di marketing?
«Per quanto riguarda le campagne “territoriali”, la questione è semplice: a Catania mettono l’elefante, a Berlino mettono l’orso, a Napoli magari mettono Pulcinella e così via. Sono personalizzazioni per dare a una iniziativa di un colosso multinazionale un sapore locale. Queste personalizzazioni appaiono in vere e proprie campagne di pubblicità. Si fa una campagna d’affissione, si comprano un certo numero di pagine sul giornale locale, si fa del volantinaggio massiccio, qualche uscita nelle televisioni locali. Ma non sono questi i fatti portanti per il successo. Questa personalizzazione è iniziale, e finisce nel momento in cui si vedrà la gente “orientata” nel verso giusto. A quel punto si passerà direttamente alle affissioni con le proposte commerciali del tipo “accendete una idea geniale, lampade a 15,90€”. La loro tecnica è questa».
Ok, ma l’elefantino Klappar è simpatico, e la campagna è comunque originale. Basti pensare al manifesto con i due uomini che si tengono per mano (“Siamo aperti a tutte le famiglie”).
«Nelle campagne pubblicitarie loro sono sempre “brillanti”, perché appunto nella loro identità c’è il fatto di essere innovativi, di massa, ingegnosi, genialoidi, disinibiti, provocatori. Tutto questo è il loro “bouquet valoriale”».
Perché un posto dove ti vendono mobili in serie e per giunta da montare funziona?
«Partiamo da lontano: una volta la “promessa di immortalità” era insita nelle merci; il rapporto con il consumo era drammatico, una cosa “seria”, perché un oggetto si comprava idealmente “per la vita”. Oggi c’è il senso della transitorietà, tutto è più leggero, e questo tipo di sensazione del consumo, aziende come Ikea, con migliaia di ricerche di mercato, le conoscono benissimo. E le applicano alle campagne per farle sembrare “geniali” e “originali”. A questo aggiungiamo che Ikea ha un rapporto prezzo qualità straordinario, cioé Ikea è l’equivalente di H&M, di Zara, questo tipo di negozi che rispondono a criteri assolutamente nuovi nei rapporti produzione-consumo. Perché negozi come Zara, sono fenomeni mondiali? Perché offrono cose di gusto a un prezzo stra-abbordabile, assolutamente di moda, e concepiti non per durare, come era una volta quando un cappotto doveva durare dodici anni, ma per durare due anni. Perciò sono costruiti per essere transitori, e la gente se li compra in maniera assolutamente “sciolta” e poi le modalità di consumo sono ibride».
Tecnicamente quindi come si muove una invasione territoriale (evidentemente vikinga) come quella di Ikea?
«Si fa tutto con dei format assai rigidi. Innanzitutto il format di collocazione nel territorio: funziona un po’ come era la vecchia logica dei Motel Agip che erano all’ingresso o all’uscita dalla città, perché questi, come Ikea oggi, servivano un’area territoriale di tipo extraurbano. Il principio è che una persona di Siracusa o una persona di Enna è previsto che possa venire alla periferia di Catania. Cosa ben diversa sarebbe se questo Ikea fosse per esempio messo a piazza Dante; diciamocelo: la gente si romperebbe le scatole. E siccome il format è stretto, e il marketing ancora di più, Ikea di Catania è esattamente uno scatolone blu come è in tutti gli altri posti in Italia in cui è presente».
Però mi sfugge un meccanismo: come può una persona appassionarsi a uno “scatolone blu”?
«Naturalmente la fama lo precede: non è un mobilificio qualunque che apre, ma è un luogo culturale. In Sicilia non è diffusa la cultura del fai-da-te, ma questo si diffonderà perché è la “reason why” del prezzo economico. Compri e porti via tutte cose smontate. Poi col bricolage la gente si monta armadi, mensole e tavolini. Ci sono quelli a cui piacerà, quelli a cui non piacerà per nulla. Già m’immagino il catanese tipo “ca c’arrestunu i viti nde manu”, le parti della libreria sparse per casa e la voglia di sbattere la testa nel muro. Si sfasceranno famiglie. Ma se invece è un catanese di gusto nordico “s’arricria la vita”».
Dunque è un po’ come dire che Ikea arriva solo quando vede che il proprio modo di “vendere” sarà accettato dal luogo di destinazione…
«In passato la gente era classificata in cluster rigidi: chi compra la scarpa Bata, la compra solo da Bata. Poi ci sono quelli che comprano la scarpa Rossetti, che non costa, mettiamo 40 euro ma 140. Poi c’è il cluster ancora superiore, con la scarpa che costa 280 euro al paio. Cluster vuol dire “raggruppamento omogeneo”, e queste fasce di consumo erano rigide, cioé chi comprava una scarpa da 300 euro poi non comprava una pantofola da cinque. Invece oggi non è più così, il consumo è ibrido, perciò oggi compro un orologio Rolex, e magari anche un orologio Swatch. E questa cosa vale anche per il mobile, del tipo “Amore, ci cambiamo questo divano, tantu fra du anni u ittamu e ni pigghiamu n’autru“».