Il capo etiope che sequestrava i migranti al Cara «Si vantava delle protezioni di cui poteva godere»

Un mazzo di soldi in tasca e la sicurezza di chi si sente protetto dai piani alti. «Così funziona la vita in Sicilia». Parola di Asghedom Ghermay, soprannome Amice, uno dei vertici dell’organizzazione di trafficanti di migranti, sgominata stanotte dalla polizia su ordine della Direzione distrettuale antimafia di Palermo che ha disposto l’arresto di 24 persone. Tra questi c’è Ghermay, etiope e capo che opera a Catania. Ha costruito e gestisce una rete di fidati collaboratori all’interno del Cara di Mineo. Dove lui stesso è rimasto per circa un anno, da maggio del 2013 a giugno del 2014, fino a quando ha ricevuto il permesso di soggiorno. Il centro per richiedenti asilo sarebbe stato usato da Ghermay anche come base per tenere sequestrati i migranti, in attesa che i parenti pagassero il riscatto per la loro libertà. 

Il nome di Asghedom Ghermay è noto anche nella comunità eritrea catanese. Perché quella sembrerebbe essere, infatti, la nazionalità che lui avrebbe dichiarato al suo arrivo in Sicilia. Una scelta non casuale: avrebbe reso più facile l’ottenimento del permesso di soggiorno e degli aiuti umanitari. Ma da quanto emerge dall’operazione di stanotte lui proverrebbe in realtà dall’Etiopia. Nel capoluogo etneo ha preso una casa, dopo essere stato dimesso dal Cara. Ma la sua attività di trafficante non si è mai fermata, grazie anche al fratello, Ermias Ghermay, latitante a Tripoli, ritenuto dagli inquirenti italiani il vertice assoluto dell’organizzazione. Su di lui pendono due ordinanze di arresto. Ma è sempre riuscito a farla franca, grazie a presunte protezioni delle autorità locali libiche. 

«Noi l’avevamo avvisato e minacciato: stai esagerando, ma lui ha tirato fuori un mazzo di soldi dalla tasca, intimandoci di farci gli affari nostri. “Così funziona la vita qui”, ci ha detto». A parlare è un membro della comunità eritrea catanese. «Ghermay andava a prendere i migranti che arrivavano a Messina, a Pozzallo, a Siculiana, con mezzi propri o noleggiati. E li faceva entrare al Cara di Mineo, anche se non avevano alcun diritto a stare là. Li teneva sequestrati, fino a quando non arrivavano soldi dall’estero». 

Una situazione che chi racconta ha vissuto in prima persona. «Un mio parente è stato suo prigioniero, mi hanno avvisato dalla Svezia. So chi era Ghermay, sono andato a parlargli. Lui voleva 200 euro, ma non glieli ho dati. Aveva già ricevuto dei soldi per portare quella persona da Siculiana a Catania. L’ho minacciato che avrei chiamato la polizia. Si difendeva dicendo che “quelli del Cara erano senza scrupoli e volevano più soldi”, ma io sapevo che era lui a tirare le fila. Prima mi ha cacciato in malo modo, poi mi ha fatto richiamare da un’altra persona per informarmi che aveva liberato il mio parente e che l’avrei potuto trovare in un locale vicino alla stazione di Catania». 

Perché nessuno lo ha denunciato prima? «Ci abbiamo provato, ma servivano testimoni e non ne avevamo – spiega l’uomo che da molti anni vive a Catania – chi veniva liberato scappava e non voleva sentirne di raccontare tutto alla polizia. Inoltre nessuno affrontava Ghermay con fermezza, c’era molta paura verso di lui. La sua forza derivava dai soldi che gestiva e da suo fratello, Ermias, è lui il vero capo. Mi stupisco di come ancora non siano riusciti a prenderlo, Ashgedom era sempre in contatto telefonico con Ermias». 

Secondo la nostra fonte, Ashgedom Ghermay si vantava delle alte protezioni di cui poteva godere. «Non si riferiva solo al fratello a Tripoli, ma a presunte autorità italiane, ma non ci ho mai creduto perché aveva la bocca larga». 

Per la comunità eritrea gli arresti di oggi sono una liberazione. «Ci eravamo sorpresi che non fosse stato fermato nell’operazione che aveva portato a dicembre a una decina di arresti a Catania. Già allora era chiaro il suo ruolo di vertice. Per noi oggi è una bella giornata».

Salvo Catalano

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