Lo studio del politologo Giancarlo Minaldi, presentato a Torino in un convegno di scienze politiche, analizza le ragioni del plebiscito che ha portato le liste pentastellate ad essere scelte dal 46,4 per cento degli elettori a sud della Capitale
Il boom del M5S al Sud in uno studio accademico «Tensione tra base e dirigenza può creare fughe»
Una «egemonia spersonalizzata». È così che il politologo e docente universitario alla Kore di Enna, Giancarlo Minaldi, descrive in uno studio il fenomeno del boom del Movimento 5 Stelle nel Sud Italia alle scorse elezioni politiche del 4 marzo 2018. Una tornata elettorale che «ha sancito – scrive Minaldi nel saggio presentato nel corso del XXXII Convegno della Società italiana di scienza politica tenuto a Torino lo scorso settembre – un inedito quadro di polarizzazione territoriale del consenso, egemonizzato al Nord da un centrodestra trainato dalla imponente crescita della Lega (dall’8,3 del 2013 al 25,5 per cento) e al Sud e nelle isole dal Movimento 5 Stelle (dal 27,1 al 46,4 per cento)». Un plebiscito che però «non indica – aggiunge il politologo – la sua trasformazione in un partito territoriale, un nuovo “partito del Sud”, giacché il M5s è rimasto un grande partito nazionale che ha espresso una inedita egemonia al Sud».
Ad essere determinante, ancora una volta, è stato il brand pentastellato, piuttosto che i singoli candidati. «Un sondaggio post-elettorale sui fattori determinanti nella scelta di voto – si legge ancora nella relazione – ha nettamente confermato come nel Mezzogiorno oltre l’80 per cento degli intervistati abbia votato per il partito, prescindendo dal profilo del candidato nel collegio uninominale». Ed ecco che lo studio accademico condotto dal politologo si concentra sulle caratteristiche della classe parlamentare eletta al Sud. A partite dall’annosa questione: ma il Movimento fondato da Grillo e Casaleggio è di destra o di sinistra? «La letteratura ormai copiosa sul M5s non esprime un indirizzo unitario e men che meno coerente circa la collocazione tipologica o anche solo di indirizzo categoriale del partito. Ciò non soltanto perché il partito (e la maggioranza del suo elettorato) continua a rifiutare l’autocollocazione lungo l’asse destra-sinistra, ma anche e soprattutto perché la rapida ascesa e istituzionalizzazione rende oltremodo arduo coglierne gli elementi strutturali e di consolidamento».
L’obiettivo di Minaldi è quello di analizzare il plebiscito nei confronti delle liste pentastellate in «un’area territoriale storicamente caratterizzata dalla personalizzazione e dallo scambio clientelare». Secondo il politologo, il voto ai cinquestelle «ha senza dubbio una forte connotazione anti-establishment che nel Mezzogiorno si è tradotto in un massiccio rifiuto di riprodurre vincoli individuali e spesso clientelari, tanto che anche una quota significativa di chi nel 2013 aveva scelto la via dell’exit, ha deciso di rimettersi in gioco, come a segnalare l’urgenza di un cambiamento, di una netta discontinuità». Il livello di istruzione degli eletti «risulta particolarmente elevato, con i tre quarti degli eletti in possesso di una laurea». E anche guardando alle professionalità, ecco che la categoria più diffusa è infatti quella dei liberi professionisti, che ammontano a ben oltre un terzo degli eletti.
Le conclusioni dello studio evidenziano come «la mancanza di organismi intermedi tra party in central office e party on the ground, supplita dalla rappresentanza parlamentare, espone la classe parlamentare (e tanto più quella meridionale) al rischio di tensioni disgregative» tra la base e i veri vertici del Movimento. «Una tensione – conclude Minaldi – che al momento in cui scriviamo appare così elevata da poter trasformare, con la stessa estemporaneità della sua genesi, una élite d’avanguardia in una moltitudine disorientata e in fuga».