Il 2 giugno festeggiamo la Repubblica con Dante e non con le armi

Subito dopo la scadenza della clausola segreta imposta all’Italia dalle potenze alleate nel contesto del trattato di pace, clausola che inibiva fino a pochi anni fa al nostro bellicoso e pugnace Paese, che contro i suoi meriti aveva perso la guerra, di costruire portaerei, lo Stato italiano ha provveduto immediatamente a dotarsi proprio di una bella portaerei.

Niente di strano, per carità, o di scandaloso. Avendo già completato la rete dell’edilizia scolastica e ospedaliera, avendo consolidato irreversibilmente la spesa per la ricerca scientifica e tecnologica, messo in sicurezza il patrimonio ambientale e culturale del Paese, e avendo posto fine alla disoccupazione, perché non regalarsi una fiammante portaerei, impiegando appena un miliardo di euro (pari a duemila miliardi di vecchie lire?). Sono soldi benedetti, in caso di guerra potremo fare la nostra bella figura.

Certo, penserà qualche nostalgico, con una atomicuccia ci presenteremmo meglio, ma oggigiorno, se non si è stati abbastanza canaglia da essersela fatta prima… Siamo perciò costretti ad accontentarci di un centinaio di caccia bombardieri comprati a prezzi stracciati (solo qualche miliardo di euro) e così i nostri militari possono giocare a Risiko. Però così non siamo né carne, né pesce e, sfortunatamente, se il giuoco dovesse farsi veramente duro il nostro esercito, come quelli degli altri minori potenti, come chiamerebbe Machiavelli le nazioni come l’Italia, durerebbe non più di 10-15 minuti e tutto il baraccone che costa allo Stato un mare di soldi scomparirebbe, in un frullo di stellette, decorazioni, nastri, mostrine, alamari e orbaci (e sarebbe un dejà vu). Inghiottendo pure tutti i soldi che sono stati spesi. Ma tant’è.

Il fascismo strisciante che regge il nostro Paese e il sano timore superstizioso per le forze armate che hanno la possibilità di esercitare la forza fisica pretende questo ristoro per la nostra ridicola tendenza guerrafondaia e tutti ci acconciamo, sinistra compresa. Meglio sarebbe se tutta questa zavorra fosse scaricata in servizi socialmente utili, quali vigilare sulle strade perché non diventino discariche, bonificare il territorio franoso, presidiare i luoghi sensibili, accompagnare i bambini a scuola, spalare la neve ed altri servizi socialmente utili.

Fatta questa ampia premessa, mi permetta, caro direttore, di lanciare una proposta, condensata in questa lettera

al Presidente della Repubblica

che sarebbe bello fosse sottoscritta da tanti cittadini. Eccola:

Signor Presidente,

un Paese turbato, smarrito, confuso si appresta a celebrare l’anniversario della nascita della Repubblica. Come sempre il cuore della festa sarà costituita dalla parata militare con sfoggio finale di frecce tricolori. Niente di più e niente di meno dei festeggiamenti, mi permetta, in un qualunque paesucolo del Sudamerica senza storia e senza memoria. In quest’occasione, ogni anno, mi chiedo come sia stato possibile che nel nostro Paese, tra i primi al mondo per storia e cultura, della celebrazione dell’identità nazionale si siano potute appropriare le forze armate. Anzi, ne siano le uniche rappresentanti e che quest’anno, dunque, mentre il Paese soffre e brucia, sfileranno ai Fori Imperiali, tronfi e pettoruti, i nostri figli migliori.

Io credo invece che il cuore della festa stia nella celebrazione e nel ricordo di quegli uomini che l’Italia hanno amato e cantato, e che con la loro vita l’hanno onorata e arricchita. Se non li ricordiamo, se non ne facciamo il centro della nostra riconoscenza, rischiamo di tradire la nostra missione nel mondo.

Signor Presidente, mi piace pensare che quel giorno Lei, il primo degli italiani, di buon mattino, in compagnia della sua signora, uscito dal Quirinale da una postierla poco conosciuta, si metterà in viaggio in direzione di Ravenna e, giunto davanti alla tomba venerata di Dante, il più grande italiano, ci parlerà. Parlerà a tutti noi, a tutti gli italiani turbati, smarriti, confusi. Ci parlerà del “cor che egli ebbe, mendicando sua vita a frusto a frusto”, della sua forza morale, ci ricorderà le sue parole sdegnate e il suo messaggio di speranza non solo di una vita celeste, ma di una vita vissuta su questa terra da “cive”, nobilmente e semplicemente facendo il proprio dovere.

L’immortalità di Dante non è esclusivo appannaggio dei professori di italiano, né degli alunni canaglie, come li chiama affettuosamente Montale, E’ nostra, prima di tutti gli italiani, poi del mondo intero ed è a noi che parla e parlerà, per sempre.

 

 

 


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