I mondi impossibili di Fulvio Abbate

Con un laconico messaggio affidato a YouTube ha chiuso i battenti virtuali, speriamo momentaneamente, l’esperienza di Teledurruti, il video blog lanciato nel 1998 da Fulvio Abbate e conosciuto con l’inedita definizione “una televisione monolocale”. Tranquilli, non ci saranno manifestazioni di dipendenti licenziati, né si alzeranno le voci dei consueti soloni a difesa della libertà di informazione, perché Fulvio Abbate, palermitano di nascita e formazione e romano d’adozione, è stato sempre “sulle scatole” dei principali esponenti della sinistra italiana.
Da giovanissimo, nel 1970, ha militato nella FGCI così come nell’Unione dei Comunisti Italiani, un’organizzazione maoista meglio nota con il titolo del suo giornale, Servire il popolo. Nel 1989, da iscritto al Partito Comunista Italiano, si dichiarò contrario alla cosiddetta “svolta” di Achille Occhetto. Così fino a riconoscersi, in nome del rifiuto della delega, in un’area che si ispira al socialismo libertario. Nel 1981 si laurea in filosofia con una tesi su Louis-Ferdinand Céline. Dal 1979 al 1983 fa parte della redazione del quotidiano palermitano L’Ora. Dal 1992 al 2008 è opinionista de l’Unità, fino a quando il Direttore, Concita De Gregorio, ne decreta la cacciata, in nome della “vocazione maggioritaria” del Pd, proclamata da Veltroni.
In spirito di rivolta nel 1998 ha dato vita a quella Teledurruti (dal nome dell’anarchico spagnolo Buenaventura Durruti) che da oggi ci mancherà. Molte puntate vedevano come co-protagonista la madre dello scrittore, Gemma Politi, fine francesista scomparsa nel settembre del 2011, e poi la figlia Carla, ma anche dei brevi “documentari” realizzati in esterni a cominciare dal ciclo della “Storia del mondo attraverso le portinerie”.
L’occasione di raccontare la propria città natale in Zero maggio a Palermo è stata nel 1990 il suo esordio: scorrono i primi anni Settanta e Ale e Dario sono due adolescenti alla scoperta del mondo, con qualche ideale di rivoluzione. E questo ideale ha per loro un solo nome: comunismo. Ci credono con l’entusiasmo di chi ha ancora tutta la vita per veder realizzati i propri sogni, ci credono senza considerare neppure alla lontana l’eventualità di una delusione o, addirittura, la stessa fine del PCI. Si rimboccano le maniche, filtrando il quotidiano attraverso memorie e proiezioni, critiche e fantasie, in una Palermo animata da personaggi come Salvatore Cuore di Zundapp, i sei Salvatori anarchici, le cugine Silvì e Vartan, la cagnetta Laika, ma anche i cattivi: i fascisti.
A Zero Maggio, seguiranno Oggi è un secolo, Theoria, 1992. Dopo l’estate, Bompiani, 1995. La peste bis, Bompiani, 1997. Teledurruti, Baldini & Castoldi, 2002. Quando è la rivoluzione, Baldini Castoldi Dalai, 2008 e il recente Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, Baldini Castoldi Dalai, 2011.
L’occasione della chiusura di Teledurruti stimola una serie di riflessioni che spero non annoieranno il lettore e che si dispiegano su tre versanti. La prima di esse è la fotografia delle illusioni/delusioni di una generazione di giovani medio/alto borghesi che – ad eccezione di pochi militanti nelle zone più eretiche e “di confine” dell’associazionismo cattolico, tra cui chi scrive – alla fine degli anni ’60 confluirono a Palermo nelle file del PCI, un partito serio, ricco di idealità concrete, capace di una, seppur iniziale, autocritica del proprio passato e orientato dalla testimonianza di Enrico Berlinguer, il più grande leader morale che esso abbia mai avuto, prima dirigente della FGCI e poi Segretario Generale.
In una Palermo, molto simile a quella attuale, spenta, grigia, degradata nelle cose e nei valori, l‘unica prospettiva, culturale prima ancora che politica, era avvicinarsi a quel partito. E così avvenne, con non poche lacerazioni anche familiari, all’insegna di barbe lasciate crescere, di
eskimo indossati come una divisa, di contestazioni universitarie, di occupazioni di aree pregevoli del Centro Storico “a perdere” e dell’esibizione di simboli diventati ideologici quali la mitica Due Cavalli della Citroen o la gettonatissima Renaut 4 con le quali si faceva, precariamente e salvo lunghe deviazioni in autostop, il giro di un’Europa mitica e sconosciuta ai più.
Sono gli anni narrati dall’emiliano Pier Vittorio Tondelli in Altri Libertini o dal nostro Gianmauro Costa in Yesterday (Sellerio 2001) e ne Il Libro di Legno (Sellerio 2010),rari frutti, purtroppo, della sua pur fervida capacità di scrittura. Quanta differenza con i tardi epigoni di quel partito – già severamente ammoniti da Pio La Torre per il concreto sospetto di consociativismo con il potere regionale – oggi pudicamente rinominato Pd, pronto a prestarsi in Sicilia alle operazioni politiche più spregiudicate ed a manipolare, con il probabile consenso degli interessati, anche giovani e promettenti intelligenze che sarebbero potute essere risorse per il futuro.
La seconda considerazione riguarda la progressiva emarginazione di Fulvio Abbate dai circuiti culturali dell’intellighenzia di sinistra e dai media che essa controlla, segno di un’inarrestabile crisi dell’identità di un soggetto politico che, dopo la caduta del Muro di Berlino (ma in realtà durante il decennio precedente), non ha solo preso atto di un modello sociale ed economico che la storia sembrava aver sconfitto ma, colpevolmente, ha preteso di cancellare il proprio passato, inventandosi un presente e proponendosi per un futuro affatto diversi, protesi a rassicurare il Paese che con il nuovo corso poteva essere preso in considerazione come partito di governo, pur mantenendo in sella gli stessi esponenti, più o meno “miglioristi”, di sempre e offrendo di fatto una facile sponda all’ascesa rapidissima di Berlusconi, accreditatosi, allora abilmente, come erede del Centro e difensore dei valori della democrazia liberale e della libertà d’impresa.
Preso atto che il gioco era stato scoperto da molti italiani e che la “gioiosa macchina da guerra” (l’espressione politica più infelice della storia elettorale repubblicana) aveva di fatto coalizzato ogni altra forza politica all’insegna dell’anticomunismo retrò, in salsa berlusconiana, il partito comunista ha iniziato la mimetizzazione, procurandosi uomini “schermo” come Prodi, lasciato cadere ben due volte alla prima occasione e manifestandosi oggi fedele e intransigente sicofante di Mario Monti (superato soltanto dalle estasi mistiche di Pierferdinando Casini), da cui la distanza in termini culturali, politici e di visione del modello di sviluppo è a dir poco, siderale.
Poco adusi all’ironia (quella attribuita a D’Alema è in realtà sarcasmo) e affetti da sempre della sindrome della mosca cocchiera, quasi tutti gli attuali esponenti sembrano non accorgersi di quanto il Presidente Professore, di fatto, li consideri solo una stampella al proprio governo ed un utile “cuscinetto” per frenare la CGIL di Camusso, Cremaschi e Landini. Stupisce come ancora le altre forze della sinistra storica (nessuna confusione con il mondo dipietrista che è, a tutti gli effetti, costituito di storie ed identità a sé stanti) continuino a vagheggiarne l’alleanza nelle future competizioni, forse confidando in un consenso intorno al 28% che mediaticamente viene ancora esibito come una garanzia reale ma che, ad avviso di chi scrive, è profondamente eroso presso una base sempre più affascinata dal vero astro, più che nascente, Niki Vendola, l’unico in grado di evocare mondi e modi possibili e di convocare intorno a sé i più giovani, nulla rinnegando della storia comunista e, anzi, avendo ben chiaro che molte di quelle istanze tornano nuovamente ad agitare il mondo globalizzato, pur declinandosi in inedite prospettive culturali e modalità di attuazione transnazionali.
L’ultima considerazione, suggerita dal biglietto agitato da Fulvio Abbate su YouTube e con su scritto “non ne ho più voglia”, è l’analogia, debitamente proporzionata, agli uomini e alle opere, tra la sua vicenda intellettuale e civile e la figura di Pier Paolo Pasolini che, non a caso, ha ispirato il suo più recente libro come coraggiosa proposta ai giovani – un tempo si sarebbe detta “scandalosa” come quelle di Socrate o di Oscar Wilde – tentando la scommessa di un’ alfabetizzazione storica e civile che coincide con una domanda retorica: ti immagini se Pier Paolo Pasolini vedesse dove siamo finiti? La vera questione è, ad avviso di chi scrive, che Fulvio Abbate è nato come intellettuale non organico – come spesso accade per molti scrittori tardivamente riconosciuti e poi ipocritamente celebrati – nell’epoca e nel Paese sbagliati. Egli appartiene, e gli auguriamo di resistere a lungo nel fisico e nello spirito, a quella tipologia di autori che trovarono ossigeno creativo nella più straordinaria avventura culturale del XX secolo a Weimar e i cui intensi quindici anni di vita non sarebbero stati così memorabili se il raffronto con il successivo periodo nazista si limitasse alla constatazione che a una Repubblica si sostituì una dittatura.
Come mito, la Repubblica di Weimar nasce anche – e forse soprattutto – da uno stridente contrasto. Quello tra l’instabilità delle sue istituzioni, la precarietà dei governi e le crisi economiche di cui fu preda (con il corollario di disoccupazione e inflazione record), e il grande fervore artistico e culturale che ne caratterizzò la vita fino al suo ultimo giorno. Furono gli anni migliori per scrittori come Thomas Mann, Alfred Doblin, Hermann Hesse, Erich Maria Remarque, per poeti come Rainer Maria Rilke, per pittori come KandinskiJ e Klee. Anni di sperimentazione con le correnti architettoniche nel Bauhaus, con il teatro di Brecht e Toller, con i film di Fritz Lang (c’erano anche quelli più leggeri, ma che hanno ugualmente fatto storia, interpretati da Marlene Dietrich). Anni di cupo pessimismo unito a un vitalismo ancestrale nelle opere filosofiche di Spengler, Heidegger e Junger. E poi la gaudente Berlino, città libertina, pulsante, il crogiolo dove tutte queste tensioni spirituali si concentravano sintetizzandosi nel mito della “cultura di Weimar”.
Che poi il mito non sia stato colto come tale dai contemporanei, ma creato in seguito è un altro discorso. Lo storico Hagen Schulze, in un brano tratto dal suo saggio sulla storia della Repubblica di Weimar, ha ben colto la temperie dell’epoca e la nascita successiva del suo mito: “Espressionismo e post-espressionismo, nuova oggettività, realismo metafisico, dadaismo, futurismo, cubismo, primitivismo, l’arte propugnata dalla rivista Merz di Kurt Schwitters, il verismo, il suprematismo, il progressivismo, il funzionalismo, il neoclassicismo: tutto ciò si affastella nel giro di un decennio, crea scuole e discepoli che si combattono accanitamente tra loro, di volta in volta si presenta come assolutamente nuovo, unico e diverso: uno scintillante caleidoscopio di forme e colori mai visti prima. Tuttavia la ‘cultura di Weimar’ è un mito, nato nei caffè di Praga e di Parigi, nell’università in esilio di New York, nelle colonie di profughi della Costa Azzurra o della costa occidentale americana, dopo la fuga e l’espatrio dei molti intellettuali che hanno dato forma e colore agli anni Venti”.
Un’Europa molto diversa da quella di oggi, per fermare la quale si attivarono le forze più oscure e sotterranee che il Dritto Romano, il Rinascimento e la Riforma non avevano mai raggiunto e sconfitto e che ritornano oggi sotto le spoglie dell’invito al buon senso e alla sobrietà, a proporre quella necessità di un nuovo ordine sociale e del controllo su molteplici forme di libera espressione che troveranno sempre in persone come Giordano Bruno e Tommaso Campanella, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, Dietrich Bonhoeffer e Friedrich Nietzsche, Oscar Wilde e Alan Turing, e persino nell’anarchico, apparentemente inoffensivo, Fulvio Abbate, i principali obiettivi da emarginare e da colpire, perché colpevoli del più alto attentato all’affermazione di poteri assoluti, comunque travestiti: indurre a concepire, fuori dal pensiero unico, mondi possibili e modi alternativi di costruirli.

 


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