Governare un Paese in declino

L’Italia è un Paese in declino che scivola verso la marginalità sia in Europa che nel mondo. Non è più necessario ricorrere alla messe di dati che i vari e qualificati Istituti di Ricerca mettono ogni giorno a disposizione. La cronaca sempre più spietata ci restituisce una narrazionem inequivocabile.

L’Italia perde terreno perché ha permesso che in questi anni la distanza tra la propria società – e quindi tra la propria economia – e quella della maggior parte dei Paesi occidentali con cui inevitabilmente è chiamata a misurarsi, diventasse incolmabile.

I tanti appuntamenti a cui non ha saputo presentarsi, il mancato rinnovamento della propria classe dirigente pubblica, il protrarsi di un capitalismo anomalo, l’inseguimento di ideologie altrove morte e sepolte hanno generato un clima di sfiducia da cui i giovani che possono fuggono alla prima occasione, mentre gli adulti scuotono il capo rassegnati.

Non si tratta soltanto dell’ormai piena consapevolezza di avere davanti prospettive di molto inferiore a quelle dei propri genitori o nonni, né della conclamata crisi di credibilità che logore istituzioni si affannano quotidianamente a manifestare. Una grande malinconia caratterizza l’intero Paese, pur esprimendosi con modalità culturali diverse nelle diverse zone geografiche. Nel nord si è esaurita da anni la spinta propulsiva che sosteneva il cuore produttivo di un’Italia della creatività, dell’invenzione, dell’originalità coniugate nel clima conviviale della piccola e media impresa. Travolta dalla pressione fiscale cresciuta in modo esponenziale e oppressa dalla più vasta e costosa burocrazia del Pianeta essa non ha potuto investire in ricerca e innovazione ed ha preferito de localizzare per sopravvivere, cercando altrove di ricostruire il proprio futuro, dove ancora era possibile rispondere ad una domanda di mercato attestata sui beni primari.

Nel Sud, ormai totalmente controllato dalle diverse seppur mutanti organizzazioni criminali, è lo Stato stesso che è scomparso due volte: la prima come datore di un lavoro pubblico, effimero riparatore della scelta di non far decollare lo sviluppo produttivo, la seconda come insieme di istituzioni sempre più impotenti dinanzi al dilagare del bisogno, della malattia, del degrado ambientale e sociale.

Il declino del Paese viene da lontano perché si è radicato in almeno tre scelte che oggi si pagano a caro prezzo.

La prima scelta è stata il progressivo allontanamento di quanto dall’Unione Europea perveniva in tema di suggerimenti o direttive che avrebbero aiutato un progresso lento ma costante. Per l’Italia l’Europa è stata solo una risorsa economica da spendere nel clientelismo e nello spreco. Ne è un segnale evidente la potente barriera linguistica che vede solo una percentuale minima di abitanti conoscere altre lingue (intendo proprio conoscere e praticare .. e non studiare a scuola per qualche anno). Si pensi al danno fatto dal doppiaggio cinematografico, quasi assente negli altri Paesi dove al contrario proprio il mezzo televisivo o il cinema hanno contribuito significativamente all’avvicinamento almeno all’inglese che oggi la maggior parte dei nati tra il 60 e il 90 comprende bene nei paesi scandinavi e sufficientemente in quelli dell’est europeo.

Chi scrive ha vissuto in più occasione esperienze di percorsi di scambio e di studio promossi dal CEDEFOP una delle agenzie europee che si occupa di apprendimento e di formazione promuovendo in paesi diversi, alcuni dei quali allora non erano ancora entrati nell’Unione, seminari molto impegnativi ma del tutto spesati ed ogni volta ha constatato lo stupore e la sorpresa degli altri partecipanti nell’incontrare un italiano. I seminari erano affollati di estoni, lettoni, danesi, norvegesi, finlandesi mandati dai propri governi a capire le nuove strade dello sviluppo e ad acquisire gli strumenti per gestirlo. Anni dopo abbiamo visto la differenza così come la vediamo nella risibile presenza di funzionari italiani nei ruoli amministrativi dell’Unione. Per noi è sufficiente talvolta emanare proclami a difesa della lingua italiana nel contesto europeo. Quindi non solo non ci sforziamo di aprire la mente ma in più vi costruiamo sopra una protesta da ridere non certo per l’indubbio valore del nostro idioma quando per il provincialismo con cui la conduciamo.

Una seconda drammatica scelta è stata mantenere un capitalismo familiare, luogo della massima ambiguità economica, garantendone gli errori attraverso la cassaforte di Mediobanca e scaricandone le perdite sui piccoli risparmiatori. Un sistema di cui sono stati custodi gli gnomi della finanza nostrana a scuola dei quali molti sono poi andati non riuscendone però ad esserne all’altezza per cui alla misteriosa riservatezza di Cuccia o alla palese contiguità con il crimine di Sindona, entrambi menti (siciliane) raffinatissime seppur diversamente orientate, si è sostituita la rapacità di Calvi, la grandeur di Geronzi e l’arroganza dei furbetti del quartierino. Nel frattempo il sistema bancario andava in frantumi con la legge Amato che avrebbe funzionato sicuramente altrove ma che in Italia ha solo invitato a pranzo squali e pirana che hanno fatto a pezzi Istituzioni plurisecolari e inoculato nei risparmiatori (grande riserva strategica del Paese) il veleno della speculazione. Lo spettacolo di oggi del Monte dei Paschi di Siena è solo l’epilogo di una vicenda tragica.

Infine l’incapacità di porre un freno agli appetiti delle corporazioni (ordini professionali, università, fondazioni bancarie ecc) e per altro verso di dichiarare apertamente che alcune follie ideologiche non potevano più essere prese in considerazione in un Paese che le aveva comunque realizzate, seppur attraverso il debito pubblico. Ciò ha generato un’azione combinata che ha ulteriormente differito ogni presa di coscienza e accelerato il declino.

Era inevitabile che sulle macerie facesse la propria comparsa il Bagatto, suonando pifferi di ogni genere che, se hanno fatto inizialmente presa sulla “casalinga di Voghera”, hanno poi conquistato almeno due generazioni veramente convinte che il mondo fosse quello del Mulino Bianco e che l’Italia fosse solo un Paese incompreso e ingiustamente criticato in Europa e nel mondo. Taccio sulle brevi parentesi dei governi di centro sinistra, pallidi ologrammi di valori mai creduti e meno che mai praticati, ma impegnati esclusivamente a procurarsi in ben due occasioni sprecate una foglia di fico dietro cui nascondere la propria strutturale inadeguatezza a traghettare il Paese verso il cambiamento.

Ed è giunta l’ora in cui….è venuto giù il circo, ma non per gli applausi quanto per il fragore con cui sono entrate in scena due categorie di mattatori: i Castigamatti e i Prestigiatori.

Alla prima categoria appartengono i presunti portatori del “rigore” prima morale, poi giudiziario e poi economico, trovando ogni volta un nemico da additare e verso cui convogliare la rabbia e la delusione della gente normale. Nella seconda categoria si distinguono quanti promettono di estrarre dal magico cilindro i conigli dai colori più fantasiosi, proponendo una visione del Paese come se l’Italia fosse l’Arcipelago delle Isole Lofoten o del Canale della Manica e non un significativo tassello di delicatissime dinamiche internazionali.

C’è chi ha proposto il Dio Po e le danze celtiche, chi il ritorno della lotta di classe e alla produzione di massa, chi, ancora, spacciando le nuove tecnologie, che altrove hanno contribuito a cambiare il mondo, come un messianico strumento per costruire la democrazia e chi infine ha dato il colpo finale al palo centrale del tendone, riproponendo se stesso come il Demiurgo di un paese felice.

Alla luce dei fatti, e dei numeri, non prevarranno probabilmente né i Castigamatti né i Prestigiatori, pallidi burattini che recitano copioni scritti da altri che vogliono che entrambi siano costretti a convivere, a mescolarsi, a ostacolarsi gli uni con gli altri, rendendo ancora più confusa ed incomprensibile la strada verso il futuro. Fino a quando sarà maturo il tempo per imporne, tra la gratitudine di tutti, uno solo, stabilito ormai da decenni..

C’è però in ogni essere umano e in ogni società un istinto sopito che, nei momenti di grande drammaticità si riscuote e permette di attingere a risorse che non si immaginava di avere. E’ l’istinto di sopravvivenza che porta i singoli o i gruppi a ricercare altrove condizioni di vita migliore per sè e per la prole e le società a ribellarsi, talvolta in modo cruento e incontrollato, quando la misura è veramente colma, i figli piangono e gli anziani muoiono di freddo, non perché siano dei barboni ma semplicemente perché non possono più permettersi di riscaldare quelle case, di cui, Imu
a parte, sono paradossalmente “padroni”.

Non è facile immaginare verso quale delle due strade si dirigerà l’istinto di sopravvivenza ma è sotto gli occhi di tutti che se la prima è già stata imboccata dai giovani più coraggiosi e non solo talentuosi e dalle imprese più avvedute, la seconda potrebbe rimanere l’ultima via d’uscita per chi, come un tempo si diceva, “non ha da perdere altro se non le proprie catene”.

Foto in alto a sinistra e in prima pagina tratta da giuseppebresciani

 

Loris Sanlorenzo

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