Gli Usa e le guerre senza truppe

Gli Usa da un lato, Al Qaeda o chi per essa dall’altro. E’ questo lo scenario delle eventuali guerre di domani che, come si coglie tra le righe, sta alla base del Trattato mondiale approvato sotto l’egida dell’Onu per limitare la vendita di armi a Paesi sotto embargo o a cui viene contestata la violazione dei diritti umani o il collateralismo con la criminalità organizzata internazionale.

Insensato senza la firma degli Usa, la maggior potenza militare mondiale, il Trattato è stato firmato – per entrare in vigore dovrà essere ratificato dai Parlamenti di almeno 50 Stati membri entro i prossimi 2 anni – solo nel momento in cui è caduta ogni pregiudiziale di Washington.

In cambio di questo, il Trattato non fa alcuna menzione dei droni, i famosi aerei senza pilota, comandati a distanza, che sono la vera arma strategica dell’amministrazione Obama. Ben più del famigerato guerrafondaio George W. Bush, infatti, il Nobel per la pace 2008 Barack Obama conduce la lotta ai nemici degli Usa attraverso questi apparecchi, evitando il ricorso alle truppe (se non per le missioni speciali come la cattura e uccisione di Osama Bin Laden, per la quale era determinante avere la prova provata di aver colpito proprio lui).

Yemen, Pakistan, Afghanistan sono i principali teatri di azione in cui la tecnologia ha sostituito l’ìmpiego delle truppe, ma i droni sono anche a disposizione per il sostegno a impegni militari di altre nazioni condivisi dagli Usa (così è per i droni di stanza nel sud del Marocco rispetto all’impegno francese in Mali).

Chi dietro le scelte di Washington vede sempre il peso dell’industria militare yankee – secondo la denuncia fatta proprio da un presidente americano, Dwight D. Eisenhower, ma ormai oltre mezzo secolo fa – potrà anche vedere nell’adesione Usa e nelle condizioni in cui è avvenuta una scelta di politica industriale: il sostegno di Washington all’industria bellica non è venuto meno, ma si è orientato verso un certo tipo di prodotto – i droni appunto – piuttosto che un altro (l’equipaggiamento militare ‘vecchio stile’, fatto di truppe e carri armati).

Lasciando stare teorie complottistiche un po’ demodè – la svolta verso la guerra tecnologica negli Usa è in corso da tempo – il secondo vero dato di rilievo che emerge dal Trattato è l’assenza di divieti di vendita di armi a privati. Mentre non è possibile vendere armi a certi Stati, nulla vieta di venderli a privati che operano in quegli stessi Stati, il che equivale a dire che mentre non si sarebbe potuto vendere armi all’Afghanistan, si sarebbe potuto legittimamente venderle a Bin Laden quando questi dimorava in quel Paese.

Che Siria, Iran e Corea del Nord non abbiano siglato l’accordo non stupisce – Iran e Corea del Nord intrattengono scambi militari, Siria e Iran sono legati quasi a filo doppio tra di loro – e fondamentalmente importa pure poco, visto che tutti gli altri Paesi del mondo si sono impegnati a non vendere armi a categorie di Stati nei quali Siria, Iran e Corea del Nord rientrano a pieno titolo.

Il problema è che organizzazioni militari non statali, come quello che resta di un Al Qaeda non più al suo zenit, ma comunque in via di trasformazione e tuttora attiva (lo scenario centrafricano ne è un esempio) potranno continuare a rifornirsi, esercitando un’abilità di cui hanno già dato prova (Ciudad dell’Este in Paraguay è nota per la bisogna e per gli amanti di ‘anticaglie’ risalenti all’Armata rossa c’è il catalogo delle rivista ‘Soldier of Fortune’). E così pure, se l’assenza di divieto di vendita a privati permette di sostenere chi si batte contro il regime di Bashar Al Assad in Siria, dall’altro esso permette a organizzazioni come Hezbollah e Hamas di diversificare il proprio approvvigionamento, ove mai Iran e Siria sotto embargo non fossero più in grado di rifornirli come accaduto finora.

A riprova che lo scenario sotteso dal Trattato è quello di droni contro terroristi para-statali, nel mettere fuori gioco le vendite di armi tradizionali ad Israele, l’intesa approvata al Palazzo di vetro spinge ancor più quest’ultima, per continuare ad esistere, sulla via dei droni.

Volendolo infine inquadrare in un’ottica di politica industriale su scala mondiale, il Trattato appare proficuo per alcuni Brics, Cina e Sud Africa anzitutto, che, vuoi per uso proprio, vuoi anche a fini di vendita ad altri – e vuoi forse in vista di un futuribile scontro tra i due per l’egemonia sul continente africano – stanno da tempo sviluppando propri modelli di droni.

In breve, quello che il Trattato bandisce sono i presupposti di una guerra che già non si combatte più, quella tra truppe e mezzi di Stati sovrani. Bandisce cioè una guerra abbandonata dal momento in cui la supremazia Usa in campo militare ha indotto molti a dotarsi di armi nucleari a fini di difesa (contro il rischio di vedersi come prossimo Paese ove esportare la democrazia, secondo un’analisi del politologo Usa, Francis Fukuyama) e a sfidare gli Usa non più a viso aperto e ad armi pari (cosa ormai impossibile), ma attraverso l’arma ben più difficile da prevenire e ben più efficace e praticabile (l’11 settembre resta esemplare in tal senso) del terrorismo.

Quanto alla minaccia nucleare nordcoreana, vale probabilmente la dietrologia che di norma si applica agli Usa: quando Pyongyang alza la voce e il tiro di solito lo fa per farsi comprare con derrate alimentari.

Non stupirebbe per nulla scoprire che la denutrizione dei nordcoreani ha raggiunto nuove inedite soglie e che le minacce del grasso regime servano anche per provare a sedare il malcontento del popolo con richiami all’orgoglio patriottico.

 


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