Il dialogo tra genitori e figli è al centro di questa riflessione di Sergio Mangiameli, scrittore, giornalista ma soprattutto padre. Una comunicazione spesso difficile, fatta di concessioni e divieti, ma soprattutto di paura per la strada impervia che gli adolescenti devono percorrere durante la crescita. Meridio ospita il racconto di un genitore curioso che un giorno decide di fermarsi e condurre un’indagine sul campo: il luogo della verifica è un parco commerciale. Da qui si snoda un’analisi pungente sul rapporto tra i ragazzi e il sesso, con una venatura critica sulla possibile nuova materia di insegnamento offerta dalla scuola, l’educazione alle relazioni digitali. Il nostro giornale raccoglie lo spunto di Sergio e lo propone liberamente per aprire la strada ad un confronto. Senza però mancare di sottolineare che le preoccupazioni di un genitore, seppur legittime, devono sempre lasciare ai figli lo spazio alla sperimentazione e alla scoperta. In un quadro di naturale e inevitabile acquisizione di esperienze, nel quale la scuola gioca un ruolo determinante. Anche, perché no, attraverso l’educazione alle relazioni digitali.
Ho voluto toccare con mano un limite che molti ragazzi non vedono: il perimetro del possibile digitale. Cioè, la roba che si può mostrare in Rete e quella che si deve trattenere. C’è una frangia trasversale di ragazzi, appartenenti a classi sociali diverse, che non capisce il reato di atti osceni in luogo pubblico. Né ancor prima, questi adolescenti riescono a percepire il rispetto dell’intimità. Il sesso pare sia qualcosa di uguale a una mangiata di pizza, insomma. Da qui, si parla adesso del bisogno di educatori alle relazioni digitali a scuola come materia d’insegnamento. E mi chiedo, allora, perché non gli educatori sentimentali? Oppure gli educatori affettivi? Il discorso potrebbe andare avanti.
Così, per tagliare la testa al toro, ho chiuso i giornali, ho spento il pc, e ho portato le mie gambe fisicamente in uno dei posti caldi di un sabato pomeriggio adolescenziale: un parco commerciale e dintorni. Qui molti di noi sganciano i propri figli per due-tre ore, con lo scudo comodo degli impianti di sicurezza a telecamere e della sorveglianza fisica dei vigilanti privati. La nostra coscienza di genitori indaffarati e incasinati dovrebbe essere dunque a posto. Ma ho appurato che i fatti sono diversi.
Non è un deterrente la telecamera, per evitare di fare sesso sotto gli occhi degli altri. E non è nemmeno una sfida. È invece ininfluente, come nel caso dei ragazzini torinesi ripresi nel bagno della discoteca, e il video poi caricato in Rete. Una giovane commessa di un negozio del parco commerciale, mi racconta che «ne succedono almeno uno a sabato. Poi arriva la polizia, a volte anche su segnalazione del vigilante». La commessa non ha quarant’anni, ma poco più di venti, dunque il gap con questi adolescenti non appare enorme. Invece lo è.
Se qualcuno pensa che questo sia un problema di comunicazione, come quando negli anni ’50 tutti gli italiani iniziarono a parlare al telefono, credo si sbagli. All’epoca, bisognava inventarsi un linguaggio adatto al mezzo nuovo, e dunque rimaneva il fatto che di comunicazione si trattava. Oggi non sembra affatto così. Questi ragazzi con lo smartphone incollato alla mano mostrano, non comunicano niente di più di quello che fanno. Quel limite, tra la parte reale della loro vita e la parte riprodotta, non lo vedono. Il limite invisibile confonde anche il possibile dall’ingiusto, e il passatempo dal dolore.
Perché hanno visto i loro padri con l’amante, e le madri riscaldarsi per appuntamenti per i quali vengono dimenticati in piscina per mezz’ora. Hanno visto telefonini vibrare a mezzanotte, hanno assistito a liti e scenate senza ritegno. E poi hanno visto il Natale tutti insieme, a darsi baci e scartare regali, e ogni fiocco di regalo postato su Facebook, come il cane che dorme, il gatto che mangia, le unghie laccate, la torta a fette, il termometro con i gradi della febbre… Senza nessun limite.
E allora, sono andato via da quel maledetto parco commerciale, che mi ha fatto venire il mal di gola, seguendo a fiuto la vecchia teoria della semplicità: quando c’è un problema, spesso la soluzione migliore è la via più semplice. Mi sono chiesto se questi ragazzi avessero semplicemente un esempio chiaro, lo individuerebbero o no il limite? Se avessero qualcuno che in silenzio mostrasse rispetto per gli altri e coerenza verso se stessi, io – azzardo un’ipotesi pazzesca! – ci scommetterei ancora sui nostri figli. Lasciando in buona pace la scuola, che di problemi ne ha già a sufficienza.
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