Ci sono voluti quasi cinque anni di indagini per arrivare a costruire l'impianto accusatorio nei confronti del capofamiglia arrestato stamattina. Inutili le sue numerose precauzioni e il rifiuto di sedersi persino sul trono del mandamento di Resuttana
Gaetano Scotto, il re cauto dell’Arenella Riverito dalla gente e rispettato dai boss
«Un mafioso, anche se in carcere o fisicamente lontano, non si sconnette mai dal proprio territorio e mantiene una coltre di sudditi che lo acclamano». Utilizza queste parole il capo centro della Dia di Palermo Antonio Amoroso per descrivere il rapporto viscerale che lega Gaetano Scotto, arrestato stamattina insieme ad altre sette persone, con il rione dell’Arenella. Un luogo evocativo per gli investigatori, che dà il nome a una delle famiglie mafiose più importanti del temuto mandamento di Resuttana. Famiglia che negli ultimi anni avrebbe avuto a capo proprio lo stesso Scotto, che si sarebbe riappropriato di una leadership forse mai perduta subito dopo la scarcerazione, nel gennaio del 2016.
Un capo itinerante, così è definito Scotto tra le carte delle indagini, uno che non si ferma mai. Incontra tutti, parla con tutti, dispensa consigli, impartisce ordini, ma fa tutto all’aperto, per le strade del quartiere. È prudente, molto, sa che dal suo ritorno in Sicilia, dopo i quattro anni passati nel carcere di Rebibbia, ha tutti gli occhi su di sé. Solo dopo qualche tempo sceglierà alcuni luoghi ritenuti sicuri per gli incontri: il bar di fiducia, la pescheria, la torrefazione, il centro scommesse. Sempre coperto dalla coltre di estrema riverenza di molti abitanti dell’Arenella. Non fa mai il nome della persona con cui sta parlando, non usa mai perdersi in chiacchiere o dilungarsi su un argomento, non si fa attrarre dai ruoli di comando all’interno del mandamento o nella nuova Cosa nostra, che nel frattempo viene colpita sul nascere.
È rispettato, Scotto, tanto che poco dopo la sua scarcerazione viene invitato a essere protagonista della processione in mare in onore di Sant’Antonio Abate, molto sentita nel rione. È il 5 agosto del 2016 quando Gaetano Scotto e la sua compagna del tempo vengono invitati a prendere parte alla funzione religiosa nientemeno che sulla barca che ospita la statua del santo, dove i passeggeri non sono abitualmente nemmeno ammessi. Un gesto di particolare importanza simbolica, come rimarcano gli investigatori. D’altra parte, dalle indagini, durate quasi cinque anni, emerge la figura di un uomo forte, a cui tutti si rivolgono per dirimere anche le piccole questioni personali: c’è chi gli chiede di fare da intermediario per l’ottenimento di una fornitura di calcestruzzo, chi per recuperare dei crediti, ma soprattutto è a lui che sarebbero state chieste le autorizzazioni per aprire o gestire attività imprenditoriali sul territorio: che fossero queste legali o abusive.
E se da un lato Gaetano Scotto avrebbe goduto della riverenza dei cittadini, dall’altro anche la Cosa nostra palermitana non era stata a guardare, tanto che è lo stesso Scotto, durante una conversazione intercettata, a raccontare del dialogo intrattenuto con una persona che gli avrebbe prospettato un futuro da capo mandamento, ruolo però rifiutato categoricamente dall’uomo che teneva alta la guardia e adottava le massime cautele per non esporsi eccessivamente. «Mi fa: capo del mandamento ti stanno facendo – racconta – Queste cose non le posso fare ah… non le posso fare perché, gli ho spiegato che in questo momento … non lo faccio, perché il Signore mi è venuto padre che sono uscito (dal carcere ndr) … perciò è inutile che mi incaricate». Intanto però pare che lo stesso Scotto non si sottraesse a certe dinamiche, tentando tramite il nipote Antonino Scotto, di riallacciare i rapporti con “‘u pacchiuni“, un soprannome importante che, secondo gli inquirenti, non potrebbe essere associato ad altri se non al latitante Giovanni Motisi: ricercato dal ’93 e ritenuto responsabile di delitti eccellenti come quelli di Ninni Cassarà, Natale Mondo e Roberto Antiochia.