In un'Italia in coda nelle classifiche di genere, ha ancora senso la festa delle donne? «Che senso ha dedicare loro una giornata se non quello di ghettizzarle rispetto al resto della società?» si chiede Antonia. In occasione della giornata internazionale delle donne, una riflessione sulla condizione femminile
Gadget, mimose e diritti La vera sfida è riappropriarsi dell’otto marzo
L’armamentario gadgettistico è pronto, come alla vigilia di un grande derby calcistico, per festeggiare l’otto marzo. Sui muri campeggiano locandine che pubblicizzano serate con menù fisso e striptease incluso, agli angoli delle strade e ai semafori compaiono i primi banchetti che vendono mimose. Eppure, vogliamo davvero festeggiarlo l’otto marzo? Che senso ha dedicare alle donne una giornata se non quello di ghettizzarle rispetto al resto della società, di relegarne la presenza ad un giorno dell’anno, sancendo ancora una volta di essere la parte inferiore di una società con soli occhi d’uomo? Quanto ci sembrerebbe ridicola una festa dell’uomo?
L’Italia è al 74° posto nel mondo per Gender Gap, preceduta da Repubblica Domenicana, Vietnam, Ghana, Malawi, Romania e Tanzania. Nel nostro Paese le donne sono pressocché escluse dalle posizioni di comando, faticano ad entrare nelle liste elettorali e quindi nelle istituzioni con ruoli di direzione. Nel lavoro sono pagate meno rispetto ai colleghi uomini, pur svolgendo le stesse mansioni. La legge le vuole in servizio fino a 67 anni, dimenticandosi che a loro spetta ancora quasi sempre anche il lavoro di cura dei genitori, dei figli e dei nipoti, oltre che della casa che mai è stato loro riconosciuto. Le dimissioni in bianco le incatenano al ricatto di non avere la libertà di una gravidanza.
Il femminicidio è la prima causa di morte, un fatto culturale dalle proporzioni spaventose. Senza dimenticare il ruolo cui è stata delegata la loro rappresentazione nei mezzi di comunicazione, televisione su tutti, che le vede quasi sempre veline, showgirls, corpi nudi e soprattutto muti. Basti pensare alle pubblicità, tra le forme di persuasione più forti, in cui il corpo delle donne è ridotto a merce in uno schema comportamentale per cui donna equivale a sessualità, piuttosto che a intelligenza, creatività, cultura, forza, coraggio, autorevolezza. La lingua stessa non fa che tacere su di esse, nel suo sessismo intrinseco e nel suo uso sessista, cucendo loro addosso il suffisso in -essa, spregiativo laddove non ironico, o cancellandone la presenza in un generico singolare maschile: perché i diritti dell’uomo e non i diritti dell’umanità?
Cosa c’è da festeggiare? Forse il fatto che a distanza di quarant’anni dal pullulare del movimento femminista italiano, non si sia riuscite, seppur grande merito vada riconosciuto alle importantissime conquiste fatte, a cambiare il modo di guardare il mondo? Non abbiamo imparato nemmeno a riconoscere l’inganno cui questa data ogni anno ci pone di fronte? Forse il problema andrebbe rovesciato, ribaltato: se c’è una questione femminile è perché c’è una questione maschile. Perché non riflettere, interrogarsi, indagare sulle responsabilità degli uomini? Alcuni di loro lo fanno già, il gruppo di autocoscienza Maschile plurale per esempio, ma quanti?
Sottraiamo allora l’otto marzo ai suoi ormai sedimentati rituali consumistici e riappropriamocene lanciando agli uomini questa sfida. Forse è da lì che nascerà un nuovo modo di guardare il mondo.
Antonia Cosentino
[Foto di muufi]