Farmacia, la testimonianza di due docenti Tra chi non ricorda e chi denuncia

«Quello per me non era un ambiente sereno dove lavorare. Le giornate del week end erano benedette perché finalmente stavo meglio, ma lunedì si ricominciava da capo». Si dice stanco il professore Ennio Bousquet, docente in pensione dell’ex facoltà di Farmacia dell’Università di Catania, per tre anni a capo del dipartimento di Scienze farmaceutiche nel periodo precedente alle indagini. Eppure, tra annotazioni tecniche e racconti amari, ha trovato spazio anche per l’ironia nella sua attesa testimonianza al processo che vede imputati per disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata otto tra dirigenti e impiegati dell’università etnea.

Al centro del procedimento i laboratori della facoltà, «ma anche gli studi perché, alla fine, con i lavori di adeguamento che sono stati fatti si stava meglio in laboratorio che nelle stanze dei docenti», dice Bousquet. Prima di lui, sentita in aula un’altra docente del dipartimento: Loredana Salerno, professore associato dal 2006, frequenta la struttura dal 1996 come ricercatrice. Eppure di strani odori, malesseri e malattie sospette sembra non sapere nulla.

«Quali laboratori?». «Qualcuno si lamentava degli odori fastidiosi, però…». «Pericolo per la salute? Se ne sentiva parlare». La testimonianza di Salerno è un disco rotto di «non so», «non ricordo». Eppure, ricorda invece il pubblico ministero Lucio Setola, la docente era sempre presente alle riunioni di valutazione del rischio e ai consigli di dipartimento in cui le problematiche legate alla salubrità degli ambienti di lavoro a Farmacia erano fisse tra gli ordini del giorno. Spesso espresse con parole dure. La firma della professoressa, inoltre, si trova anche – insieme a quelle di altri colleghi – in lettere inviate agli organi superiori per richiedere un intervento tempestivo e risolutivo. Ma lei, di paure e problemi legati alla salute di tecnici e studenti, giura di non sapere niente. «Se non da voci di corridoio».

«E’ possibile che lei era sempre presente ma non ricorda niente? – chiede stizzita all’ennesimo non so la presidente del collegio giudicante – Devo ricordarle che la falsa testimonianza vale non solo per il testimone che mente, ma anche per quello che è reticente». La soluzione la suggerisce Guido Ziccone, legale dell’Università di Catania, adesso parte civile ma che potrebbe trasformarsi in responsabile alla fine del processo. «Lei li leggeva quei documenti che firmava?», chiede. «Penso di no», risponde Salerno, insicura anche di se stessa. «La capisco – interviene l’avvocato – sono stato anche io all’università per tanto tempo. Se il direttore del dipartimento ti dice di firmare, tu firmi».

Una vita di facoltà inconsapevole molto diversa da quella raccontata nella stessa aula, poco dopo, da Ennio Bousquet. Studente prima, docente poi alla facoltà di Farmacia ed ex direttore di dipartimento da due anni in pensione. «Sin dal 1985, nel mio studio, avvertivo fastidi e bruciore agli occhi, tosse, secrezioni mucose continue – racconta – Io sono allergico ai volatili chimici e quindi più sensibile, ma non ero il solo». Per anni si chiede da dove provengano quegli strani odori, si chiede se sia salutare tenere sostanze più o meno pericolose da utilizzare in laboratorio in normali armadietti adatti per i documenti, raccoglie i racconti dei colleghi che, come lui, manifestano malesseri. Quando diventa direttore del dipartimento procede ai primi adeguamenti: armadi aerati, lettere e note ai responsabili della sicurezza e al direttore amministrativo dell’ateneo, mappatura delle fogne e consigli a docenti e dipendenti di segnalare le proprie problematiche in forma scritta con referti medici. Ma non tutti in facoltà sono d’accordo.

Prima e dopo della sua direzione, ricorda, «c’era un clima da Santa Inquisizione. I malesseri non si nominavano nemmeno». Perché i professori hanno taciuto? Se lo chiede la città da anni e lo chiede anche il pm a Bousquet. «Perché per molti la ricerca è prioritaria. Noi siamo figli della mentalità degli anni ’60-’80 – spiega – Quanta più puzza c’era, più il laboratorio sapeva di lavoro». Ed è possibile morire per questo? «Forse è una malattia professionale – risponde il docente a Santi Terranova, avvocato dei familiari delle presunte vittime di quella che è stata ormai ribattezzata la facoltà dei veleni – Vedremo come moriranno gli altri».


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