“Faide” condominiali tra inquilini multirazziali: stereotipi, pregiudizi, scoperte

«Tengono altre usanze, altre religioni… portano malattie… lo dice sempre anche Emilio Fede, ma non lo ascolta nessuno!». Facile capire il contesto: gli immigrati e il loro rapporto con i pregiudizi e gli stereotipi, la vita a contatto con altre culture. È questo il tema di “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”, l’ultimo libro di Amara Lakhous.

Lo scrittore algerino, che vive a Roma dal 1995, ha presentato il suo nuovo lavoro martedì pomeriggio, presso la Biblioteca Ursino-Recupero, nel corso della prima di quattro conferenze sul tema “Lo sguardo dell’altro – Dialoghi fra culture”. L’incontro è stato organizzato dall’associazione Isola Quassùd, nata tre anni fa per la diffusione della cultura africana. Hanno partecipato Luciano Granozzi, che ha aperto la conferenza e introdotto il libro, insieme ad Emanuela Pistone e Mansour Gueye, che hanno dato voce a due brani tratti dal romanzo.

Argomento specifico dell’incontro è stato il “Linguaggio nomade: l’italiano come nuova lingua madre”. Il libro, infatti, è una ri-scrittura in italiano di “Come farti allattare da una lupa senza che ti morda”: ri-scrittura, attenzione, non traduzione.
«Si tratta di un processo lungo, in diverse fasi. Prima scrivo il mio testo in arabo, poi lo riscrivo in italiano: non sono costretto a rispettare il testo originale, per questo lo ricreo a mio piacimento», spiega Lakhous. La lingua del romanzo è un «italiano arabizzato, perché contiene delle metafore, delle immagini non italiane».

Il libro, da cui sarà tratto anche un film, ha ricordato ad alcuni critici “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Gadda per la compresenza frizzante di vari dialetti, e la commedia all’italiana soprattutto per la scelta di personaggi semplici e ben costruiti. Dal tema del linguaggio come primo momento di confronto tra persone di paesi e culture diverse, il dialogo si è spostato sulla condizione degli immigrati, dell’Islam, in un vivace dibattito, simile ad una intervista corale.

Identità e memoria, due concetti espressi anche nel libro, in che modo influiscono?
«All’inizio la nostalgia è fortissima… Ti svegli la mattina e pensi alla mamma, ad esempio. Il vero problema è che le istituzioni mettono in difficoltà l’immigrato, negando il permesso di soggiorno a chi non ha un lavoro stabile: non basta avere un contratto “a tre mesi”, ne serve uno almeno biennale, dato che per i documenti passano dai sei ai nove mesi. Anche il ruolo del “ghetto” è importante: viverci può diventare una costrizione, non una scelta, perché tutte le risposte alle necessità si trovano lì, e non ci si confronta con la società all’esterno».

Cosa si porta dietro dal suo passato in Algeria che le dà forza nella sua vita in un altro Paese?
«A dire il vero, nel 2003 sono tornato ad Algeri, e ho provato una forte nostalgia per Roma. Il rapporto con l’Algeria è comunque una ferita aperta: provo ancora una certa rabbia per gli avvenimenti che mi hanno spinto a venire qui, ma non provo disagio. In realtà, io credo che il vero scontro di civiltà sia tra uomo e donna».

Cosa pensa delle organizzazioni musulmane nel panorama italiano?
«In Italia manca un po’ di esperienza rispetto ad altre nazioni europee. Queste organizzazioni sono poco rappresentative: si tratta di una rappresentanza folkloristica, non politica. Senza contare che spesso questa tematica e le organizzazioni stesse vengono strumentalizzate».

Facciamo un paragone con la Francia, ad esempio.
«In Francia c’è molta ipocrisia… Al figlio di immigrati viene riconosciuta alla nascita la cittadinanza francese, mentre in Italia a 18 anni devi pensare al permesso di soggiorno, ma soprattutto nel lavoro c’è una forte discriminazione. Il classico esempio di integrazione che fanno i francesi è Zidane! Ma quanti Zidane esistono al mondo? E allora tutti dovremmo giocare a calcio?».

Quanto, secondo lei, lo studio e la conoscenza di una lingua straniera, e quindi di un’altra cultura, possono aiutare nel non incorrere in “scontri di civiltà”?
«È un grande rischio. Lo studio e la conoscenza di un’altra cultura sono degli strumenti, tutto dipende da come li usiamo. È come uno specchio: vi si può guardare dentro cercando degli spunti per migliorarsi, o si può soltanto criticare. Si mette comunque in discussione la cultura d’origine, e il rischio è quello di snaturarsi del tutto; libertà e rispetto di altre culture non vogliono dire avere un “vuoto”: senza una propria cultura non può esserci neanche confronto».


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