Chi dice che Catania se la passa meglio di Palermo forse deve cominciare a ricredersi. Nella sterile classifica tra chi sta peggio, il capoluogo etneo si avvicina a grandi passi a quello della Regione. Almeno dal punto di vista dell’occupazione. Se fino al 2011 la differenza del tasso di disoccupazione tra le due città raggiungeva anche i cinque punti percentuali, con l’acuirsi della crisi la forbice si è ridotta. In entrambi i principali centri siciliani il numero di persone senza lavoro è cresciuto, ma a Catania con una rapidità maggiore. Così nel 2013 la percentuale nella provincia etnea era del 19,4 per cento, poco sotto il 20,7 per cento di Palermo. «Questo la dice lunga, a proposito degli investimenti fatti sull’Etna Valley che ormai hanno subito una battuta d’arresto», commentano gli esperti delle Acli che hanno realizzato il dossier su lavoro, povertà, istruzione in Sicilia. Basandosi sugli ultimi dati Istat disponibili, ne viene fuori uno scenario a tinte cupe.
Un lavoro – dal titolo La famiglia che c’è – che le Associazioni cristiane lavoratori italiani fanno ogni anno, passando in rassegna una regione diversa alla volta. Dopo l’Emilia Romagna, tocca alla Sicilia. Dove il dato da cui partire è proprio quello sulla disoccupazione, passata in tre anni dal 14,7 per cento del 2010 al 21 per cento del 2013. A questo si aggiunge che con i suoi 74 euro pro capite, è una delle regioni italiane che investe meno nel welfare sociale. E anche dai Comuni arriva un contributo irrisorio: in media soltanto il 4,7 per cento del budget a loro disposizione viene investito nelle politiche di contrasto alla povertà. Il risultato è che una famiglia su due rientra nella classe di reddito più povera e una su tre è interessata da una condizione di povertà relativa.
Capitolo a parte meritano quelli che il dossier delle Acli definisce «gli scoraggiati», che tecnicamente rappresentano la forza lavoro potenziale. Cioè tutte quelle persone tra 15 e 74 anni che non cercano attivamente un lavoro, perché hanno perso la speranza di trovarlo, ma sono disponibili a lavorare immediatamente. Un mondo sommerso. «Il peso percentuale degli scoraggiati – si legge nella relazione – registra sempre livelli allarmanti: dal 2011 in poi costoro superano costantemente la soglia del 30 per cento (una persona su tre). Se aggiungessimo questo valore medio ai tassi di disoccupazione, il problema assumerebbe un peso assai superiore a quello ufficiale. Verrebbe alla luce un bacino di lavoratori inespresso che purtroppo rimane inutilizzato».
Un dato particolare a questo proposito riguarda la condizione del lavoro femminile a Catania. «La componente femminile fornisce un contributo significativo alle forze lavoro potenziali nella provincia etnea – scrivono i relatori – Dal 2007 in poi, infatti, il rapporto tra le potenziali lavoratrici per ogni cento forze lavoro (15-74 anni) supera costantemente il 50 per cento». Significa che una persona su due tra quelle che hanno smesso di cercare ma sarebbero disponibili è donna. Il 2011 viene individuato ancora una volta come un anno cerniera. «Se si sommassero al numero delle disoccupate catanesi quello delle potenziali lavoratrici si otterrebbe una cifra che non lascia nessuno spazio ai dubbi: a Catania, e probabilmente anche nel resto dell’isola, una parte troppo grande di donne rimane a casa senza lavoro pur facendo di fatto parte del mercato del lavoro».
A fronte di molti che si scoraggiano c’è anche una fetta di persone che decide di partire. Sempre di più negli ultimi anni. Da qualche tempo, infatti, si registrano i segnali della ripresa del fenomeno dell’emigrazione: dal 2007 al 2011 il saldo migratorio con l’estero (il rapporto tra i nuovi residenti e quelli cancellati perché espatriati) è sceso dal 3,3 per mille al valore di 1,2. Anche a Catania la mancanza di opportunità spinge sempre più persone a cercare una nuova vita fuori dai confini nazionali.
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