Dato, un maestro senza gerarchie

È normale che sia uno degli allievi a porgere l’ultimo saluto a un maestro che ci lascia. Ma non è normale che oggi io sia qui a salutare a nome di noi allievi, dei colleghi, degli studenti il prof. Giuseppe Dato.

Non è normale perché non era il momento. Non eravamo pronti, anche se seguivamo giorno dopo giorno l’evolversi della sua inesorabile malattia. Non eravamo pronti a rinunciare ai suoi consigli, ai confronti da pari a pari, ai progetti per la Facoltà, alle discussioni leggere e scherzose, a quelle serie e appassionate sulle questioni politiche. Noi suoi allievi non eravamo pronti. La Facoltà non era pronta. I colleghi non erano pronti. Ci stava guidando all’interno del periodo più tempestoso per l’Università italiana e, se possibile, ancora più tempestoso per una piccola Facoltà decentrata. Non erano pronti gli studenti i cui post su facebook danno la misura di quanto fosse amato oltre che stimato da coloro cui aveva dedicato la parte più importante della sua vita. Non erano pronti gli amministrativi della Facoltà che lo affiancavano ogni giorno e i collaboratori cui aveva rivolto pensieri fino agli ultimi giorni, affranto per il rischio che perdessero il lavoro.

Ma a nessuno è dato scegliere il tempo delle cose. E siamo qui a salutare tutti insieme il professore, l’urbanista, lo studioso, l’intellettuale Giuseppe Dato. L’uomo e il maestro.

L’uomo lo abbiamo conosciuto tutti. Giuseppe Dato si è sempre assunto le sue responsabilità. Da professore, da professionista, da intellettuale, alla guida delle strutture accademiche: dottorati, dipartimenti, la Facoltà. Ciò che andava detto, andava detto. Ciò che andava fatto, andava fatto. E in questo suo modo di agire, così raro in questi tempi oscuri, si leggeva chiaramente una etica del dovere che, però, era temperata da un’attenzione costante alla dimensione sensibile-passionale e, grazie ad essa, era contemporaneamente un’etica della responsabilità in cui l’attenzione agli effetti delle scelte e delle azioni era presente fin dall’inizio. Un esercizio duro, ma costantemente attuato. Per questo si era conquistato il rispetto e addirittura l’affetto degli studenti a Catania, come a Messina, ma soprattutto a Siracusa, in Facoltà di Architettura. Per questo si era conquistato il rispetto e la stima di colleghi di tutta Italia e stranieri. Per questo gli era stata riconosciuta nel mondo di noi urbanisti e più in generale nell’accademia l’autorevolezza che nessuno può darsi da sé, ma che solo gli altri possono riconoscerti.

E il maestro. Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di conoscere l’uomo e di averlo come maestro. Un termine, questo, a volte abusato, che alcuni di noi hanno compreso e sperimentato lavorando giorno dopo giorno accanto al prof. Giuseppe Dato. Un maestro, abbiamo imparato, non agisce mai di autorità, non impone mai la sua idea, non tratta mai il suo allievo dall’alto in basso. E così a coloro tra gli allievi che hanno intrapreso la carriera accademica, fin da quando muovevamo i primi passi da ricercatori dava consigli, ma li chiedeva. Leggeva i nostri testi e ci guidava per migliorarli, ma ci dava da leggere in anteprima i suoi e aspettava osservazioni e critiche che era pronto a recepire. E discuteva con noi, alla pari, le questioni di gestione dell’università alle quali non si è mai sottratto proprio per l’etica del dovere e della responsabilità. E lo stesso con gli altri allievi: con coloro che avevano intrapreso l’attività professionale, i migliori dei quali chiamava accanto a sé quando doveva redigere dei piani. Quando si lavorava a una pubblicazione o a un piano, a un convegno o a qualcosa di meno importante si era un gruppo, senza gerarchie autoritarie, ma un gruppo di pari dei quali uno era la guida per autorevolezza.

Con Giuseppe Dato, Preside della Facoltà di Architettura dell’Università di Catania con sede in Siracusa, scompare un’importante figura del panorama culturale, accademico e scientifico italiano.

Non voglio ripercorrere le tappe della sua carriera ma solo sottolineare che lavorare nell’Università in Sicilia, fu una scelta dettata ancora una volta dall’etica del dovere e della responsabilità. Aveva rifiutato di andare a Milano perché era convinto che l’azione di pianificazione del territorio e della città fosse una parte importante di una più generale opera di riscatto della condizione di sottosviluppo di questa Sicilia. Ed era convinto che il rafforzamento dell’istituzione universitaria, ed in particolare di quella catanese, era elemento centrale della formazione della classe dirigente del futuro.

Dal 1972, quando aveva iniziato la sua carriera in questo Ateneo, attraverso l’esperienza presso la Facoltà d’Ingegneria di Messina, fino alla fine degli anni Novanta, quando venne chiamato alla nostra Facoltà di Architettura, non è mai mancato il senso del lavoro di costruzione di una classe professionale adeguata alle sfide della contemporaneità in Sicilia.

Era convinto della necessità che la Sicilia orientale avesse una Scuola che potesse formare i suoi giovani a quella professione di architetto ritenuta tanto più essenziale quanto più devastato fosse il territorio. Una figura, quella dell’architetto, che egli ha inteso come presidio culturale e professionale contro le cause del degrado oltre che fattore di un rinnovato modello di sviluppo.

La sua attività scientifica ha, in campo nazionale, una riconosciuta autorevolezza in relazione, tra l’altro, al metodo di lettura dei tessuti urbani marginali che, messo a punto per la realtà urbana siciliana di centri grandi e piccoli, si è dimostrato applicabile anche ai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, come dimostrano i suoi studi sull’Egitto, sul Libano e sulla Libia.

Un metodo di analisi finalizzato al progetto e applicato negli strumenti urbanistici di città dell’area metropolitana catanese (Aci Castello, Aci Catena, Mascalucia e Nicolosi), e in quelli redatti, da solo o con altri importanti urbanisti italiani, per città siciliane maggiori, da Sciacca a Piazza Armerina e Agrigento.

A questa città, a Catania, dove si era trasferito con la famiglia paterna, ha dedicato studi e ricerche che costituiscono ancora oggi la più omogenea e corposa riflessione sulle trasformazioni e sulle vicende urbanistiche, dalla rifondazione dopo il terremoto del 1693 fino agli anni più recenti, passando per l’Ottocento e l’età giolittiana, senza mai sottrarsi al dibattito urbanistico e politico cittadino fin dagli anni Settanta.

Ma tutto ciò è scritto nei libri che, per fortuna, rimangono.

In questi due giorni mi sono venuti in mente centinaia di momenti trascorsi con il prof. Dato: allegri e tesi, importanti e banali, pubblici e privati. Ma soprattutto frasi, gesti, sorrisi, che ancora negli ultimi giorni ci ha regalato insieme alle sue battute ironiche, a volte sarcastiche. Noi allievi che siamo diventati colleghi non gli abbiamo mai dato il “tu”, né lui ci ha mai chiesto di farlo (ma noi non ci saremmo riusciti). Ma in quel “lei” c’è stato un rapporto di amicizia profondo, intenso, vero che si è esteso anche alle nostre famiglie.

In questi due giorni mi è venuto più volte in mente quello che è accaduto la sera in cui fu eletto Preside della facoltà di Architettura nel 2007. Dopo cena, con alcuni di noi che gli avevano fatto compagnia fin dalla mattina, decise di andare a bere qualcosa in un locale a Ortigia. Appena entrammo e, nonostante le luci fossero soffuse, qualcuno riconobbe il prof. Dato, scoppiò un applauso e grida di giubilo. Erano le decine di studenti di architettura che affollavano le sale del locale. Ecco, quel tributo spontaneo, gratuito al professore, all’uomo, al preside, che durò tantissimo e si concluse con gli abbracci degli studenti, gli accese un sorriso bellissimo.

Salutiamolo nello stesso modo e un altro sorriso bellissimo illuminerà il suo volto.


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