Crolla Unicredit? Ce ne faremo una ragione

Lo sappiamo: certe cose non si dovrebbero nemmeno pensare. E non si dovrebbero dire. Figuriamoci, poi, scriverle! Però noi, chiedendo anticipatamente perdono – o magari un piccolo sconto – per il peccato che abbiamo già commesso (con il pensiero) e per il peccato che stiamo commettendo mettendo i nostri pensieri nero su bianco, una cosa la vogliamo, per l’appunto, scrivere: non riusciamo ad essere infelici per il tonfo in Borsa di Unicredit. Anzi, se proprio la dobbiamo dire tutta, sotto sotto, la cosa, da siciliani, non ci dispiace affatto. Unicredit – alla tirata delle somme – è solo il prodotto finito di un’operazione bancaria che è stata ‘pilotata’ sulla pelle della Sicilia. Quindi…
Immaginiamo già quello che diranno i difensori a oltranza dell’Unità d’Italia: è una vergogna, gioire per la crisi di un’importante istituzione bancaria del nostro Paese, così si denigra l’Italia tutta e bla bla bla. A questi unitari & ipocriti in servizio permanente effettivo rispondiamo che l’Unità d’Italia, se c’è, deve valere sempre e non a convenienza. Quando, nel 1993, è cominciata non la ‘colonizzazione’ del sistema creditizio siciliano (la ‘colonizzazione’ del credito, cioè il prelievo dei risparmi dei siciliani – attraverso le banche del Centro Nord Italia piombate nell’Isola – da trasferire nella parte ‘sviluppata’ del nostro Paese era cominciata a metà anni ‘80), ma la ‘rapina’ del sistema creditizio siciliano nessuno ha parlato di Unità d’Italia. Anzi, in quegli anni, l’Unità d’Italia è servita per prendere i patrimoni delle grandi banche del Sud e rafforzare le grandi banche del Centro Nord Italia; e per dirottare una quota importante del risparmio delle popolazioni meridionali a sostegno delle imprese del Centro Nord Italia. E’ in questo contesto che si inserisce la rapina, operata in danno dei siciliani, di Banco di Sicilia e Sicilcassa.
La verità amara – soprattutto in materia bancaria – è che il vessillo dell’Unità d’Italia è stato quasi sempre utilizzato per mettere a tacere le poche voci che non hanno esitato a denunciare la gestione truffaldina del credito nel nostro Paese. Nell’arco di un ventennio la Sicilia è stata letteralmente privata del proprio sistema di credito di riferimento. Nel 1993 è stata messa su un’indagine giudiziaria per ‘decapitare’ i vertici del Banco di Sicilia dell’epoca. Mentre i vari signori inviati in Sicilia dai massoni della Banca d’Italia – un’istituzione dove l’unico, vero ‘valore’ è l’ipocrisia allo stato puro – operavano i propri ‘magheggi’ sul Banco, altri ‘scenziati’ inviati sempre dala Banca d’Italia, disponevano la liquidazione coatta amministrativa della Sicilcassa (settembre 1997).
La scusa era che le due banche siciliane erano state gestite male. Tesi che era vera solo in parte. Anche in questo vaso, la verità era ben diversa. E la verità era che c’erano altre grandi banche del Centro Nord Italia – che erano state gestite in modo analogo e, in alcun casi, in modo di gran lunga peggiore di come erano state gestite Banco di Sicilia e Sicilcassa – che andavano salvate perché così avevano deciso i massoni della Banca d’Italia. Di fatto, per salvare banche con bilanci molto più disastrati di quelli delle due grandi banche della nostra Isola, hanno utilizzato il patrimonio di Banco di Sicilia e Sicilcassa.
Adesso, a proposito di banche siciliane, vi racconto una storia. Nel 2003 collaboravo con la Fondazione Federico II, braccio operativo dell’Ars. In particolare, scrivevo per la rivista mensile l’Euromediterraneo. Il presidente dell’Ars dell’epoca, Guido Lo Porto, e il diretttore generale, sempre di quegli anni, Carlo Dominici, mi commissionarono un’inchiesta sul Banco di Sicilia. In particolare, sull’operazione Capitalia, che è – anzi era, visto che Capitalia è stata fatta scomparire – una sorta di ‘Vaso di Pandora’ che custodiva una parte importante dei segreti bancari, finanziari e imprenditoriali italiani (salvataggi & finanziamenti). Ed era proprio questa la forza di Cesare Geronzi, inventore e protagonista dell’operazione Capitalia (anche lui, se non ricordo male, proveniente, non a caso, dalla Banca d’Italia).
Non ero molto convinto di quest’inchiesta. Perché immaginavo – e non mi sbagliavo – che sarebbero venute fuori ‘cose da rompere’. Man mano che reperivo le notizie – grazie anche alla sapienza del professore Dominici – mi rendevo sempre più conto che la cosa sarebbe finita a casino. Ricordo che, per ben due volte, interpellai il presidente Lo Porto. Che per ben due volte di rispose: “Vai avanti”.
Non è certo questa la sede per descrivere, per filo e per segno, un’inchiesta che, tra i miei articoli e il commento del professore Dominici, occupava undici pagine del magazine. Ricordo soltanto i passaggi sul concambio delle azioni Banco di Sicilia-Banca di Roma. Dalla lettura di questi dati veniva fuori, in tutta evidenza, che il calcolo del concambio era risultato assai sfavorevole al Banco di Sicilia. O meglio, era risultato pregiudizievole per Fondazione Banco di Sicilia e Regione Siciliana titolari delle azioni del Banco di Sicilia.
Un altro elemento che non ricordavo – e che ho ritrovato rileggendo l’inchiesta che una gentile collega mi ha fornito (ero così amareggiato, e in seguito dirò anche il perché, che mi sono rifiutato, fino a qualche mese fa, di tenere in casa copia di questa inchiesta) – è l’incredibile storia del flop sui titoli. Un’operazione – sulla quale, ovviamente, non è stata mai fatta chiarezza – che costò al Banco di Sicilia una perdita di mille e 400 miliardi dii vecchie lire. La ‘torta’ si completava con un articolo del professore Dominici dal titolo scoppiettante: “Anche lei, signor ministro”. Un attacco all’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che, da un lato, denunciava il fatto che il Mezzogiorno d’Italia era rimasto senza un sistema creditizio di riferimento e, dall’altro lato, da ministro, non muoveva un dito per impedire il completamento della rapina del sistema creditizio meridionale da parte delle banche del Centro Nord Italia. La dimostrazione che, rispetto ai temi del credito nel Sud, l’accoppiata Berlusconi-Tremonti, in materia di ipocrisia, non era certo inferiore ai falsi moralisti della Banca d’Italia.
Ultima notazione – che volete: i ricordi che avevo volontariamente rimosso cominciano a riaffiorare nella mia mente -: le esilaranti considerazioni degli uomini della Consob (era pur sempre un’operazione di Borsa), che si soffermavano sui passaggi ‘sofferti’ di questa storia, ne mettevano in evidenza i punti dolenti (anche per ‘mettersi il ferro dietro la porta’, come si dice dalle nostre parti, nel caso di un’improbabile indagine di qualche sperduta autorità dello Stato) senza, però, intervenire. Mentre le leggevo ricordo che pensavo a certi film di Alberto Sordi sul carattere e sulla ‘morale’, doppia o tripla, degli italiani.
Quando il magazine venne ‘chiuso’ in tipografia, pronto per andare in stampa, pensavo che la cosa fosse fatta. Ricordo la prima pagina ‘confezionata’ dall’allora direttore de L’euromediterraneo, il compianto Andrea Ballerini: un bel pacco di Natale con un fiocco azzurro e la scritta Bds. Titolo di prima pagina: Lo scippo.
Ricordo ancora il giorno della ‘chiusura’ del magazine in tipografia: giovedì. Il lunedì successivo sarebbe iniziata la distribuzione del periodico. Il lunedì mattina – saranno state le sette e mezza – squilla il mio telefono cellulare. La voce – concitata – è quella di Andrea Ballerini. “Vieni subito in redazione, c’è un problema”. Chiedo spiegazioni. Mi risponde secco: “Ne parliamo qui”.
Oddio: qualcosa l’avevo intuita. Sulla strada che da casa mi portava alla sede della Fondazione pensavo a tutto al lavoro che mi era costato l’inchiesta sul Banco di Sicilia. Un mese e mezzo di lavoro: questo il tempo che avevo impiegato per ordinare e leggere i tanti documenti consultati e per chiedere suggerimenti e preziosi consigli al professore Dominici. Scrivere, come succede in questi casi, era stata alla fine la cosa meno faticosa.
Vuoi vedere che se ne sono pentiti e, adesso, vogliono sbaraccare tutto? Questo il pensiero che si era fissato nella mia mente mentre mi accingevo a varcare il portone della Fondazione Federico II in via Nicolò Garzilli. Appena entrato, Ballerini mi invita a recarmi con lui nella stanza del direttore generale. Come immaginavo, era presente anche il presidente dell’Ars, onorevole Guido Lo Porto. E fu proprio Lo Porto a darmi la comunicazione: “L’inchiesta non può andare. Ne abbiamo parlato con il presidente della Regione. E’ inopportuna”.
La verità sui ‘misteri’ di Capitalia – con riferimento soltanto al Banco di Sicilia, ovviamente, perché su Capitalia si potrebbero scrivere cento libri, compresa una parte della storia di Berlusconi in politica – e un attacco al ministro dell’Economia di centrodestra in carica, ‘dipinto’ per quello che era: e cioè un ipocrita, per giunta in un periodico fatto con il denaro pubblico di una Regione amministrata dal centrodestra: beh, ragazzi, era troppo.
Ricordo le parole del professore Dominici, che dell’epilogo di questa storia era amareggiato quanto me: “Caro Ambrosetti la politica…”. La politica delle corna che hanno in testa, pensavo tra me e me. Ma non ho pronunciato queste parole. L’alta politica siciliana di quegli anni si rifiutava di denunciare uno scippo che la Sicilia aveva già subito e del quale si accingeva a subire la fase finale. La solita storia. Il coraggio, prima di tutto! Dire che ero incazzato è poco.
La tipografia aveva già stampato circa cinquemila copie. Che, così mi dissero, vennero portate al macero. Questa storia l’ha in parte ripresa Bartolo Sammartino – che pure è di centrodestra ma è persona seria – la scorsa estate nel corso di un convegno celebrato a Palermo nei saloni di Palazzo Comitini.
Ormai è storia passata. Come ho già detto, non è questa la sede per ripercorre tutte le tappe di quello che, in definitiva, è stato un grande scippo perpetrato ai danni della Sicilia. Quello che oggi posso dire – anzi, quello che oggi posso augurarmi – è che i protagonisti di quella stagione: gli amministratori e i dirigenti di Banco di Sicilia e Sicilcassa, se lo vorranno, potranno raccontare la loro versione dei fatti – cioè del doppio scippo Banco di Sicilia-Sicilcassa – su questo giornale. Lo faranno? Me lo auguro. Noi siamo disponibili a ospitare i loro interventi.
Potremmo dire, per concludere, che la Banca d’Italia ha fatto tanto male alla Sicilia e, in generale, al Sud. O forse, per dirla con Sant’Agostino – formula che sicuramente piacerà all’ex Governatore, Antonio Fazio – potremmo dire che alla Sicilia e al Sud la Banca d’Italia ha elargito a piene mani tanta “mancanza di bene”. Banca di Roma, Mediocredito Centrale, Capitalia e, in ultimo, Unicredit sono tutte sigle che, per la Sicilia, al di là delle chiacchiere, si riassumono in una sola parola: rapina ai danni dei siciliani.
Oggi l’ultima ‘creazione’ di questa lunga catena voluta – lo ripeteremo all’infinito, dai massoni della Banca d’Italia – viene risucchiata dalla girandola della Borsa. La cosa non mi stupisce né mi dispiace: tutto ciò che nasce non dal male, per carità, ma dall’agostiniana “mancanza di bene” non può dare vita al bene. Su questo concetto crediamo che anche il dottore Fazio, che è cattolico, converrà con noi.

 

 

 


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Lo sappiamo: certe cose non si dovrebbero nemmeno pensare. E non si dovrebbero dire. Figuriamoci, poi, scriverle! però noi, chiedendo anticipatamente perdono - o magari un piccolo sconto - per il peccato che abbiamo già commesso (con il pensiero) e per il peccato che stiamo commettendo mettendo i nostri pensieri nero su bianco, una cosa la vogliamo, per l’appunto, scrivere: non riusciamo ad essere infelici per il tonfo in borsa di unicredit. Anzi, se proprio la dobbiamo dire tutta, sotto sotto, la cosa, da siciliani, non ci dispiace affatto. Unicredit - alla tirata delle somme - è solo il prodotto finito di un’operazione bancaria che è stata ‘pilotata’ sulla pelle della sicilia. Quindi. . .

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