I dati di Confesercenti parlano di una ripresa più dura di quello che si potrebbe immaginare. Palermo è il quarto capoluogo più in difficoltà a livello nazionale, con una perdita di 3mila attività, mentre a Catania nel 2015 hanno chiuso quattro imprese al giorno. Tra le cause, la pressione fiscale e la liberalizzazione degli orari
Crisi, dal 2011 in Sicilia 16mila negozi in meno Ma per la Regione pil in crescita dopo sette anni
Oltre 16mila attività in meno. È questo il dato allarmante che fotografa la situazione del commercio in Sicilia. La cifra riguarda il rapporto tra aperture e chiusure di negozi, bar e ristoranti negli ultimi cinque anni. Un saldo negativo che fa della Sicilia la regione più in difficoltà nell’ultimo lustro, seguita da Lombardia e Campania. A dirlo è Confesercenti, con un report che fornisce nuovi spunti di riflessione in merito alla presunta ripresa dalla crisi.
Rispetto al 2014, quest’anno a livello nazionale le perdite sono state più contenute. Tuttavia, se le chiusure delle imprese diminuiscono, anche il numero delle nuove aperture vede un segno negativo: «Attività commerciali e pubblici esercizi non sono ancora usciti da uno stato di difficoltà che ormai dura da cinque anni – dichiara il presidente di Confesercenti Massimo Vivoli -. La ripartenza dei consumi, che pure c’è stata, è ancora troppo recente e modesta per portare a una rapida inversione di tendenza, anche se finalmente nel 2015 tornano a calare le chiusure di imprese. Preoccupa, però, la frenata di nuove aperture, bloccate dalla stretta del credito e dalla riduzione dei margini di impresa, erosi dalla crisi e da una fiscalità cresciuta quasi costantemente negli ultimi cinque anni».
Per Confesercenti, le azioni che dovrebbero essere intraprese riguardano perlopiù le agevolazioni in materia di locazione: «Per mettere il settore in condizioni di ripartire davvero bisogna ridurre il peso che grava su negozi, locali e botteghe – continua Vivoli -. Ma servono anche soluzioni nuove per un contrasto mirato alla desertificazione di attività urbane: la nostra proposta è introdurre affitti a canone concordato e cedolare secca per le imprese che aprono in uno degli oltre 600mila locali ormai sfitti per ‘mancanza’ di attività in tutta Italia. Un intervento che ci aiuterebbe a difendere la vivacità dei nostri centri storici».
E se la Sicilia è la regione che sta messa peggio, anche tra i capoluoghi di provincia le città siciliane occupano i bassifondi della classifica. Palermo e Catania sono rispettivamente il quarto e il settimo capoluogo dove, negli ultimi cinque anni, il numero di esercizi commerciali si è ridotto più drasticamente. A Palermo, dal 2011 a oggi ci sono 2.299 attività in meno, mentre nel capoluogo etneo la perdita è stata pari a 1.209. In quest’ultimo caso, l’allerta era stata già lanciata a ottobre: «A Catania nei primi otto mesi dell’anno hanno abbassato le saracinesche 892 negozi di commercio al dettaglio e 208 tra bar e ristoranti. Più di quattro aziende al giorno – dichiarava la delegazione provinciale di Confesercenti -. Una lenta e progressiva resa dei piccoli commercianti con drammatiche conseguenze a livello occupazionale e sociale e con la desertificazione del centro storico». Tra le problematiche individuate anche la liberalizzazione degli orari, che favorisce i grandi centri commerciali: «I piccoli esercenti non riescono a restare aperti 365 giorni l’anno con orario continuato e questo non fa altro che far perdere quote di mercato in favore della grande distribuzione» aveva aggiunto il direttore dell’associazione Salvo Politino.
A fare da contraltare la notizia della crescita del pil. A dirlo è l’ufficio statistica della Regione, che prevede per il 2015 un incremento dello 0,4%, dopo avere perso 13 punti negli ultimi sette anni. Pochi decimali a cui aggrapparsi nell’attesa di tempi migliori.