Coy Ecce Homo

Ho finito di leggere il libro del collega e amico Giorgio Trombatore, che ho avuto modo di conoscere nel lontano 2003, frequentando entrambi la stessa aula studio, nonché i medesimi corsi di Lingua e Letteratura araba, presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere della città di Ragusa.

Cosa dire di Coy Ecce Homo? Mi ha fatto viaggiare, mi sono fatta invisibile passeggera di una vecchia jeep, se capite cosa può essere il viaggio inteso in senso profondo e non nel senso commerciale e contemporaneo della solita gita fuori porto. Queste pagine vi riportano nel cuore della savana più selvaggia e vi ci catapultano senza darvi neanche una goccia d’acqua.

Giorgio si racconta come non lo avevo mai visto, si sente uno di loro, diseredato come gli altri ma che, a differenza degli altri, conduce, al limite del possibile, campagne umanitarie senza sapere se avranno o no successo.

Avevo già sentito direttamente dalla sua bocca dei racconti agghiaccianti di ragazzi con gli arti staccati, saltati in aria sulle mine anti-uomo, ma adesso ho riletto una  di quelle storie e l’ho letta con tutto il pathos di chi ci arriva piano piano, frena, si ferma di fronte ad un muro umano che potrebbe fargli dire goodbye, ma che invece gli chiede aiuto, un aiuto disperato.

Aiuto perché nell’auto ferma sul ciglio della strada c’è riverso un corpo di giovane, giallo e con gli occhi sgranati invocanti aiuto e accanto a lui quel che resta della gamba. Ti ci porta davanti a quegli occhi come a renderti un po’ partecipe della decisione: e adesso che faccio? Che facciamo?

 Anche il lettore, leggendo queste pagine, entra nelle quinte di paesi dilaniati volta per volta da guerre civili e guerriglie che lasciano storpi bambini, e disseminano morte, che le sue vittime le prende e le ammassa per strada o peggio dentro scuole, o quel che rimane di scuole. Bimbi armati con occhi neri color pece, con tronchetti di gambe e tanta fame, guerriglieri non per vocazione ma per appartenenza tribale. Il sangue, il ripugnante riproporsi del sangue, il suo puzzo, i crani che cedono sotto le dita, la paura, le ferite che le immagini provocano all’animo, il suo turbamento. E la curiosità. Maledetta e tutta umana.

Tanti aspetti questi, si muovono o meglio danzano nell’animo di un uomo, che a 36 anni sembra ancora un ragazzino, e ogni volta che lo vedi ci trovi una linea in più sul corpo. Ma se provi a seguirla non ci vedi niente e ti perdi, perché quelle linee sono la rappresentazione esteriore di un cammino che lui sta percorrendo da solo e chiunque sarebbe solo uno spettatore curioso che davanti ad un monumento si ferma a fotografarlo, senza saperne né il nome, né il valore.

Ed è nel mondo della sofferenza, nel mondo della non vita ma della sopravvivenza, che Giorgio si muove nella piena consapevolezza che quella è la strada che ha scelto di fare e dentro la quale si muove con più naturalezza di quanto farebbe negli agi e confort delle nostre moderne e ormai sempre più globalizzate città occidentali. Non che rigetti gli sfarzi e i divertimenti, ma penso che, dopo averne assaporato il succo, voglia ritornare a scoprire l’altro e quindi se stesso, e mi accorgo che uno dei mali che ci attanaglia è che la sovrabbondanza di ogni sorta di bene ci sta stordendo e ci sta rendendo incapaci di ascoltare le nostre pulsioni più nascoste, o i nostri piaceri. Siamo come omologati a fare sempre le stesse cose o ad amare condizionatamente e ad uccidere la ragione prima del nostro viaggio, che non è iniziato in un punto per finire nel medesimo punto, ma è fatto per andare, unica direzione, avanti, e indietro, su una linea, segnata sul corpo e nella mente, in un continuo lavorio e confronto con l’ignoto che arricchisce e rende più forti. Ognuno intraprende un viaggio che lo porta a conoscere meglio se stesso, quello che cambia è che qualcuno si ferma a sostare per anni o secoli nello stesso posto, altri vanno e vengono e ogni volta che vengono lasciano degli odori, sofferenze, racconti, sorrisi speziati, e poi ripartono, e i molti stanno ad aspettarli. Giorgio è uno di questi viaggiatori. Se ne va e non lo rivedi per mesi, poi riappare, con la barba lunga, i capelli lunghi, la stessa maglietta, gli stessi jeans e non ti dice molto, anzi non ti dice quasi niente. Molto spesso devi chiedere, ma a volte è imbarazzante e un po’ scontata la curiosità, e quindi le domande le direzioni sulla contingenza universitaria.

Ma per fortuna questo libro parla da solo, o meglio, è come se avesse deciso di confessarsi una volta per tutte, e in pochissimi giorni va giù che ti dispiace sia finito.

I miei complimenti più sinceri vanno a Mister Trombatore, sperando sempre che non si cacci in guai troppo grossi (ma tanto, paraculo com’è, se ne sgattaiola fuori!).


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