La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai legali di Michele Privitera, l'uomo già condannato a 21 anni per la morte del 23enne Salvatore Zappalà. Nelle carte del processo la terapia non convenzionale proposta alla famiglia e gli enigmi irrisolti
Condannato a 21 anni psicologo che uccise paziente Colpo di fucile in testa durante una seduta di caccia
Condanna confermata per lo psicologo Michele Privitera, ritenuto autore dell’omicidio del 23enne Salvatore Zappalà, trovato morto in una campagna di Paternò a inizio 2008. In serata è arrivato il pronunciamento della Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso dei legali del 59enne di Viagrande. Resta immutata, dunque, la pena a 21 anni. La vittima era da qualche tempo un paziente di Privitera, che all’epoca dei fatti lavorava al Sert di Acireale. Ma il rapporto tra i due era nato all’interno di una cornice non convenzionale, lontana dai protocolli sanitari e dalle terapie ufficiali.
«Senta, è successo un incidente. Vi prego, sono a Paternò. Un ragazzo si è preso il mio fucile e si è sparato». Sono le 16.20 del 2 gennaio di 12 anni fa, quando la telefonata arriva al numero d’emergenza dei carabinieri. A chiamare è il dottor Michele Privitera. Piange, è agitato. Il medico fatica a spiegare in modo chiaro il punto esatto in cui si trova, nonostante si tratti di un fondo agricolo che conosce bene. Quel terreno, infatti, è di proprietà dell’istituto Valdisavoia di Catania, ente per cui in passato aveva lavorato così come Sebastiano Orifici, dipendente in pensione dell’istituto e amico di Privitera, al quale più volte ha facilitato l’ingresso consapevole della sua passione per la caccia.
Quel mercoledì, Privitera era partito in auto da Acireale insieme al 23enne Salvatore Zappalà. I due si erano conosciuti al Sert qualche anno prima, anche se il giovane non sarebbe stato davvero un abituale consumatore di droghe. Da qualche mese, però, la frequentazione si era fatta più fitta nell’ambito di una sorta di terapia di risocializzazione, proposta da Privitera ai genitori di Zappalà e all’insaputa di quest’ultimo. Un modo, aveva spiegato, per assistere il ragazzo senza fargli pensare di essere sotto cura. A chiedere aiuto a Privitera, su suggerimento di una dirigente dell’Asp di Catania, erano stati i familiari di Zappalà, preoccupati per lo stato psicologico del figlio. Da qualche tempo aveva iniziato a rinchiudersi in se stesso. Quando arrivano in contrada Agnelleria, i carabinieri trovano Privitera e Orifici. Zappalà, invece, si trova qualche centinaio di metri da lì, vicino a uno dei tantissimi alberi di arance. Morto. Con un foro sulla parte sinistra del volto causato da un fucile calibro 12. L’arma, di proprietà dello psicologo, è vicina alla mano destra della vittima.
Portato in caserma, Privitera ribadisce la versione del suicidio data ai carabinieri sul posto, seppure con una leggera modifica: in un primo momento parla di un’azione repentina del giovane, che gli aveva sottratto l’arma sparandosi con una velocità tale da impedirgli qualsiasi reazione; poi dice che il colpo era stato esploso mentre stava andando verso l’auto alla ricerca delle sigarette. Passano pochi giorni e l’ipotesi suicidaria viene messa da parte: un consiglio sbagliato, si giustifica Privitera, forse dall’avvocato d’ufficio. Il 23enne – è questa la nuova ricostruzione, sostenuta anche dalla difesa nel processo – sarebbe morto accidentalmente, dopo essersi piegato in avanti per prendere il fucile con una mano e il pacco di sigarette con l’altra. Anche questa dinamica, però, non convince gli inquirenti: il tipo di arma, la sua lunghezza non agevola un suicidio attuato in una frazione di secondo, e Zappalà da destrorso difficilmente avrebbe potuto impugnare il fucile e spararsi sul lato sinistro del volto. Infine, la posizione delle gambe e la vicinanza del fucile al palmo fa apparire la scena inverosimile. Forse frutto dell’intervento di qualcuno a morte avvenuta. Mentre non si riesce a capire come mai la vittima sia stata trovata senza cintura e bottone dei pantaloni, gli stessi stirati dalla sorella poco prima che il fratello uscisse di casa.
Ma se dal punto di vista scientifico e medico-legale lo scontro tra i consulenti delle parti è stato acceso, a colpire nelle sentenze è la ricostruzione dello sfondo su cui il rapporto tra Privitera e Zappalà si evolveva. «A uno psicoterapeuta fa un po’ inorridire che nel corso di un trattamento psicoterapeutico ci sia, come atmosfera, una campagna dove si va a fare una battuta di caccia», anziché un «contesto protettivo», si legge nella relazione dello psichiatra Maurizo Marasco. Il consulente nominato dalla corte non esita a definire quella condotta da Privitera una «psicoterapia selvaggia».
A destare perplessità, tuttavia, non sono solo le battute di caccia proposte nonostante nel processo sia emerso che Zappalà non aveva mai avuto la passione per le armi. Altre ombre si addensano sulle serate organizzate da Privitera in compagnia di donne mature. Incontri a cui si presenta in compagnia di quel 23enne che presenta come un normale amico. Nonostante a separarli siano quasi 25 anni. Ma a insospettire i giudici non è il carattere apparentemente insolito delle frequentazioni, quanto il fatto che i testimoni chiamati a deporre abbiano manifestato una certa reticenza nel ricostruire quei caffè e quelle serate in pizzera. In una circostanza, poi, l’imputato e una delle testi ascoltate non concordano sul nome anagrafico della quarta persona presente all’appuntamento. Va detto che per ogni incontro con il giovane, indipendentemente da dove si svolgesse, Privitera percepiva la somma di cento euro dalla famiglia di Zappalà. A riprova, per i giudici, di come venissero considerate comunque delle sedute terapeutiche.
Le ambiguità non si fermano qui. Nel corso del processo i giudici hanno rimarcato come alcuni aspetti della vicenda siano rimasti nebulosi. A partire dal ruolo di Orifici. L’uomo, comunque rimasto estraneo alle indagini, ha sempre sostenuto di essere arrivato sul posto in seguito alla richiesta di aiuto di Privitera e in concomitanza con i carabinieri. Una ricostruzione che non ha mai del tutto convinto, specie perché è forte il sospetto che la prima telefonata al 112 sia stata fatta da un cellulare diverso, ma impossibile da riconoscere per una serie di questioni tecniche, da quello usato dallo psicologo. Orifici, dal canto suo, già durante il processo di primo grado ha detto di essere stato costretto a cambiare telefono dopo l’incendio per autocombustione dell’apparecchio. Ed è sempre il pensionato ad avere messo a verbale di essere rimasto lontano dalla scena del delitto, nonostante i familiari di Zappalà – assistiti dai legali dello studio guidato dall’avvocato Enzo Mellia – abbiano testimoniato che era stato proprio Orifici ad accompagnarli nell’aranceto, descrivendo loro la posizione in cui era stato trovato il figlio.
La mattina del 2 gennaio 2008, Salvo Zappalà aveva acquistato della vernice per rimettere a nuovo il distributore di benzina di proprietà della nonna. L’intenzione – hanno raccontato i familiari ai giudici – sarebbe stata quella di trovarsi un’occupazione nell’attesa di completare il percorso di iscrizione all’albo dei geometri. Propositi che per i giudici furono interrotti violentemente da quello psicologo che aveva promesso, a sua insaputa, di reinserirlo in società. Ma qual è il motivo per cui Privitera sparò al 23enne? Per i giudici stabilire un preciso movente, per un delitto che viene definito d’impeto e non pianificato, non è semplice, ma la sua genesi va cercata in «quell’ambigua rete di situazioni nelle quali l’imputato aveva inserito il giovane».