Claudio Fava, quando la politica parla di teatro «Serve schiena dritta contro le forze xenofobe»

Il giuramento mette in scena il dramma di un uomo: Mario Carrara è uno dei 12 professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo nel 1931. Quando lo guardi ti chiedi: perché? Perché oggi? La risposta più ovvia sarebbe: si tratta di uno spettacolo antifascistaIn una Catania con CasaPound alle porte. Ma l’impressione è che non si tratti di uno spettacolo ideologico, che offra una soluzione semplice. Il dramma resta aperto, e resta aperto il dubbio. Qual è il conformismo di oggi contro cui scrive Claudio Fava? Chi è oggi Mario Carrara? Se Mario Carrara è rappresentazione del dubbio, non può che essere rappresentazione di Claudio Fava: uomo solo di fronte al conformismo.

Perché gli anni del fascismo, perché questa storia?
«Ho voluto raccontare la storia di uno dei dodici che scelsero di tenere la schiena dritta. L’ambientazione era quella: 1931, gli anni del fascismo, il conformismo di questa Italietta in cui – che ci si credesse o meno – tutti dovevano essere fascisti; il sentimento di decenza che anima questo e gli altri professori che non giurarono. Erano persone dotate di senso del ridicolo, di senso della decenza, e pensavano tutte che uno scienziato, qual è un professore universitario, non dovesse giurare fedeltà al capo di un governo, ma solo alla propria scienza e alla libertà della propria scienza».

E al di là della ricostruzione storica?
«La vicenda di Carrara mi sembrava una parabola molto bella, molto attuale. Le cose che accadono di questi tempi ci dicono che è ancora più attuale di quanto pensassi io. Come i conformismi rischino anche di rilanciare l’idea di una destra xenofoba, retriva, reazionaria, che sta incominciando a diventare cultura globale nel mondo».

Ma al di là dell’ideologia, oggi, il conformista che si adegua pur non aderendo genuinamente…
«È la storia di questo paese. Ci si adegua. Si adeguavano gli italiani: tutti fascisti fino all’8 settembre, tutti antifascisti il giorno dopo. Questa è una comunità, un popolo, una nazione di gente che si adegua perché occorre vivere e sopravvivere, e tenere la schiena dritta ogni tanto ti porta a pagare un prezzo, che può essere quello di questi professori o dei tanti che in anni recenti la schiena l’hanno tenuta dritta davanti ad altre minacce ad altri ammonimenti e qualcuno l’ha avuta spezzata. In questo mi sembra che ci sia una lezione della storia abbastanza universale. Anche nel modo in cui questi dodici ci hanno dimostrato di avere ragione».

Ci parli adesso del processo di scrittura. Come procede nella stesura di un’opera teatrale?
«Parto da una storia, inventata o meno. Una storia dentro la quale mi riferisco a qualcosa di vero, a personaggi autentici. Traccio le linee fondamentali della verità storica e poi mi prendo tutte le libertà drammaturgiche e narrative per costruire personaggi che abbiano un loro spessore: i loro pensieri, il loro fiato, la loro fisicità. Il teatro non può essere né documentario né un’orazione civile, dev’essere anche la capacità di contaminare la verità e la realtà, la capacità di rischiare racconti che si allontanino dalla realtà per avvicinarsi alla percezione della realtà di un immaginario collettivo».

Modello e stile: realismo?
«Molta attenzione ai dialoghi, che che è il vizio di fabbrica di uno che ha fatto il mestiere di giornalista. Poi è compito dei registi trasformare questa parola anche in movimento, in presenza scenica. Per me è molto importante la qualità della parola, l’essenzialità, l’asciuttezza, la puntualità, dietro la quale spesso si svelano mondi più complessi di quelli che vengono portati sulla scena».

E ha avuto modo di seguire la produzione e la regia?
«Ho seguito le prove, sì. Sì, con Ninni Bruschetta ho già lavorato in altri tre spettacoli, allo Stabile ho lavorato in altre occasioni… Sono tutte presenza sul piano professionale che danno conforto, che danno garanzia, anche se poi ogni spettacolo è un’avventura a sé. Però mi sembra che ci sia stata un’interpretazione molto aderente al testo sia da parte degli attori che da parte del regista».

So che è difficile definirsi con un’etichetta. Ma tra il giornalista, il politico, il drammaturgo: chi è Claudio Fava?
«La scrittura, nelle sue varie forme. Direi lo scrittore, ma la scrittura è un sostantivo che raccoglie più mestieri. La scrittura per me oggi vitale è quella del teatro, che ha un elemento di immediatezza che non si può immaginare in forme di racconto diverse da questo contatto fisico quotidiano con l’attore. È anche un miracolo per un autore vedere ogni sera le proprie parole prendere corpo e prendere forma».

Anche la politica è una forma di scrittura?
«È una forma di scrittura interiore ed esteriore, e parte da alcune qualità che sono proprie del mestiere della scrittura: la curiosità, l’ascolto, e il dubbio. Senza i quali non c’è scrittura, e non c’è neanche buona politica».


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