L'imprenditore ed editore del quotidiano La Sicilia era accusato di concorso esterno alla mafia. Un reato che, secondo Gaetana Bernabò Distefano, non esiste. Nonostante «il grandissimo intuito di Falcone». Ma il tribunale di Catania si spacca su un documento che presenta spezzoni di film già visti e qualche errore tecnico
Ciancio, capo Gip prende distanze dalla giudice L’analisi della sentenza tra punti oscuri ed errori
«La figura del concorso esterno è stata definita quale mezza-mafia. Un qualcosa di mafia c’è ma non così tanto da volerlo considerare inserito nella compagine criminosa mafiosa». È uno dei passaggi più originali della sentenza con cui la giudice per le indagini preliminari di Catania Gaetana Bernabò Distefano ha fatto cadere l’accusa di concorso esterno nei confronti dell’imprenditore Mario Ciancio. Un reato che, proprio come la mafia per alcuni, sembra non esistere. Ma a 24 ore dal deposito delle motivazioni della sentenza, è arrivata la dichiarazione di Nunzio Sarpietro, presidente dell’ufficio gip di Catania: «La negazione del reato di concorso esterno all’associazione mafiosa dal punto di vista giurisprudenziale è una decisione del tutto personale e isolata della dottoressa Gaetana Bernabò Distefano, poiché tutti gli altri giudici della sezione ritengono il suddetto reato sicuramente ipotizzabile, come più volte stabilito dalla Corte di Cassazione».
E la valutazione sul reato reso famoso dall’applicazione di Giovanni Falcone nel maxi-processo non sembra essere l’unico punto oscuro del documento. È la stessa giudice a citare «il grandissimo intuito di Falcone», per poi però specificare come le cose in trent’anni siano cambiate. Innanzitutto perché il concorso esterno non è riuscito a guadagnarsi la posizione di reato autosufficiente ma resta la somma del normale concorso in un reato qualunque e dell’associazione mafiosa. Ma Bernabò Distefano va oltre, sostenendo che oggi «sfuma la distinzione tra concorrente interno ed esterno». Tra mafiosi di professione e professionisti – avvocati, imprenditori, politici – che collaborano part-time con Cosa nostra. Un impianto che si inserisce in un aspro dibattito nazionale, più politico – come politici sono spesso gli indagati e imputati per concorso – che di giurisprudenza.
Somiglianze
La prima è con la requisitoria del sostituto procuratore generale Francesco Iacoviello che in Appello ha chiesto l’annullamento della condanna in primo grado del senatore Marcello Dell’Utri sempre per concorso esterno alla mafia, poi condannato in via definitiva a sette anni. «Un’imputazione liquida», secondo Iacoviello. «Nebulosa ed evanescente», per Bernabò Distefano. Entrambi gli atti, poi, mettono in discussione quello che forse è davvero uno dei limiti dell’accusa: la presenza di un solo reato – il concorso esterno alla mafia – e non di «reati fine». Un’estorsione o un appalto da truccare, qualcosa che spieghi come il senatore e l’imprenditore sarebbero scesi a patti con Cosa nostra.
Ma i rimandi non finiscono qui. «Il rifiuto di un qualsiasi dialogo (con la mafia, ndr) condurrebbe l’imprenditore a rinunciare all’esercizio dell’impresa», scriveva a inizio anni ’90 un altro giudice catanese, Luigi Russo, nella sentenza-ordinanza che ha prosciolto da tutte le accuse di collusione i cavalieri del lavoro etnei Carmelo Costanzo e Gaetano Graci. Che vent’anni dopo diventa un leit motiv già sentito: «L’imputato è un noto imprenditore, svolge attività imprenditoriale in vari settori, è direttore del giornale La Sicilia ed in tale sua qualità ha contatti con moltissime persone. Persone comuni, politici, imprenditori, e gente di ogni tipo», scrive Bernabò Distefano.
Incongruenze
Francesco Di Carlo, ex mafioso palermitano poi pentitosi, racconta di aver saputo dai catanesi che Ciancio «era un loro amico». La giudice obietta: «Di Carlo indica quale fonte di conoscenza Calderone, collaboratore di giustizia (uno dei più importanti di Catania, sentito anche da Falcone) e non riscontra tali dichiarazioni». Eppure difficile sarebbe stato trovare conferma ai racconti come chiede la giudice. Perché il pentito sentito da Giovanni Falcone – quello a cui si riferisce Bernabò Distefano – è Antonino Calderone, morto tre anni fa. Ma il Calderone citato da Di Carlo come fonte è il fratello Giuseppe, morto nel 1978, quasi 20 anni prima del pentimento dello stesso Di Carlo nel 1996.
Bernabò Distefano avanza anche delle riserve sui racconti di Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo don Vito. E lo fa citando l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel 2015 nel processo per la presunta trattativa Stato-mafia, dove Ciancimino era tra i testimoni principali. Nonché ricordando il rinvio a giudizio per calunnia che ha ricevuto nello stesso anno. Ma le motivazioni dell’assoluzione dell’ex senatore non sono ancora state depositate, così come non si è concluso il processo a Ciancimino jr per le sue presunte bugie davanti alla giustizia.
Errori
Ci sono anche altri casi, oltre a quello di Giuseppe Calderone, in cui il documento zoppica sui nomi. L’ex sindaco di Castel di Judica – condannato in primo grado a 20 anni per associazione mafiosa – Rosario Di Dio diventa «Di Dio Gaetano, esponente della mafia Calatina». Mentre tra le pagine spunta anche il «procedimento denominato Roma Capitale», al posto della nota indagine Mafia Capitale.
L’ultima parte della sentenza riserva poi una serie di stranezze tecniche. «Visto l’articolo 129 dichiara il non luogo a procedere». Un articolo applicabile quando il giudice dell’udienza preliminare ha la totale cognizione dell’innocenza dell’imputato. Perché, ad esempio, ha scelto un rito abbreviato che si celebra del tutto davanti a quel giudice. Nel caso di Ciancio, invece, Bernabò Distefano conosceva solo l’inizio di una storia che avrebbe potuto svilupparsi in un successivo processo. E proprio per queste evenienze è pensato l’articolo 425. Talmente azzeccato che al comma 3, proprio come scrive la stessa giudice, cita la «inidoneità, carenza o contraddittorietà» delle prove.
«Il fatto non è previsto dalla legge come reato». Una formula che in concreto, nelle aule dei tribunali, si usa quando un reato è stato depenalizzato e non perché l’ipotesi di affari con esponenti mafiosi sia legale da sempre. Significa piuttosto che la questione non va più affrontata in ambito penale, perché è diventata un illecito civile o amministrativo. Affinché succeda, però, serve un’abrogazione: un iter più complicato e condiviso di una sentenza di un tribunale.
«Termine di giorni 90 per il deposito dei motivi». Secondo il codice, le sentenze di non luogo a procedere hanno un termine unico di 30 giorni. A partire dai quali, ed entro quindici giorni, la procura può presentare ricorso in Cassazione. Scadenza impossibile da rispettare se le motivazioni fossero state davvero depositate dopo tre mesi.