In occasione della presentazione del suo ultimo libro, il magistrato, ex membro del pool antimafia parla di quellesperienza che segnò una rivoluzione nella lotta a Cosa Nostra. E sul presente dice: Della giustizia in Italia non frega niente a nessuno
«Chi ha paura muore ogni giorno»: i dieci anni di Ayala con Falcone e Borsellino
“Chi ha paura muore ogni giorno” è una frase di Paolo Borsellino, ma è anche il titolo che Giuseppe Ayala ha voluto dare al suo libro. «L’ho scelta perché contiene un monito che riguarda tutti noi – ha detto Ayala – perché è normale avere paura ma guai a farsi condizionare da quella paura, sarebbe come mettere un freno alla nostra vita».
Al Castello Normanno di Aci Castello per il ciclo “La fortezza del libro” – evento organizzato dal comune di Aci Castello in collaborazione con la Provincia Regionale di Catania e il Teatro Stabile – durante una lunga chiacchierata con Enzo Bianco, Ayala ha raccontato quei dieci anni in cui fu compiuta una vera rivoluzione nella lotta alla mafia: «L’intuizione di Giovanni Falcone – dice – parte da un semplice ragionamento: per combattere la criminalità organizzata, dobbiamo organizzarci anche noi. Da qui è nata l’idea del pool antimafia». Ayala ha parlato anche di come è cambiato il comportamento dello Stato in questi anni: «Allora avevamo il sostegno dello Stato, del Ministro dell’Interno Scalfaro e del Ministro della Giustizia Rognoni. Basti pensare che l’aula bunker fu costruita in soli sei mesi. Questo vuol dire che quando lo Stato vuole combattere la mafia può farlo benissimo. Il problema lo racconto in un capitolo del mio libro che s’intitola “La partita truccata”, perché è proprio come una partita di calcio che si finge soltanto di giocare. Ho visto tante persone che stavano nella mia squadra ma che avrebbero potuto giocare benissimo con quella della mafia».
Il libro è soprattutto il racconto del suo lato privato e della profonda amicizia che lo legava a Borsellino e soprattutto a Falcone. «Le pagine sono volutamente leggere – ha dichiarato Ayala – perché voglio rendere l’atmosfera, quella continua ironia tra di noi così necessaria: ridevamo per non piangere».
È un fiume di parole, Giuseppe Ayala. Lo è stato anche durante l’intervista che ci ha concesso.
Famiglia Cristiana ha duramente attaccato il governo Berlusconi sulla riforma della giustizia, sostenendo che rende i giudici meno liberi e assoggettati al potere politico. Maria Falcone ha parlato di “strumentalizzazione” del fratello. Secondo Lei come sta agendo il governo nei confronti della giustizia?
Sulla riforma dico solo che non è nemmeno un problema di farne una piuttosto che un’altra. Il vero male della giustizia italiana è la lentezza dei processi. Questo è un problema che non si risolve. La verità è che della giustizia nel nostro Paese non gliene fotte niente a nessuno.
Lei sostiene che non ci sono vecchie e nuove mafie, ma semplicemente che la mafia è cambiata, si è adattata al sistema. A questa evoluzione della mafia ne è conseguita una della giustizia, o combattiamo le nuove strategie con i vecchi metodi?
Un’evoluzione c’è stata, soprattutto negli anni Ottanta. Se facessi un bilancio della risposta giudiziaria precedente al nostro lavoro sarebbe catastrofico. Solo che ora è cambiato il codice di procedura penale, con quello nuovo il maxi-processo non si potrebbe tecnicamente fare. Ma non dimentichiamo che buoni successi si ottengono ancora oggi.
Cosa pensa di questo nuovo business che vende l’immagine di una mafia “pop”, con fiction che raccontano la vita dei boss, murales con l’effige di Messina Denaro e souvenir che celebrano la “mafiosità”?
Sarò sincero: mi ha fatto indignare la pubblicità fatta da Repubblica, che per circa un mese ci ha tempestato con le immagini in prima pagina che invitavano gli italiani a compare i sei dvd che raccontano la storia di Riina. Io sono davvero indignato, non perdo occasione di ribadirlo.
E cosa pensa di ciò che è successo negli scorsi giorni durante il “Dance Attack” a Catania? Si dice che un centinaio di ragazzi non abbiano potuto partecipare perché le famiglie temevano ritorsioni da parte della mafia. Qualcuno però sostiene che sia stata una montatura per portare alla ribalta la manifestazione…
Non ho elementi per ipotizzare montature. Se si è trattato di montatura, è un fatto che si commenta da sé. Se invece è un fatto vero, non ho nessuno stupore, forse un po’ di amarezza. Ma la paura della mafia è una vecchia storia. Pensiamo piuttosto a quelli che ci sono andati.
Come commenta la decisione del sindaco di Comiso di non intitolare più l’aeroporto a Pio La Torre ?
Mah, in Sicilia ci sono sindaci strani. Ora c’è questa decisione del sindaco di Modica. Prima di lui il sindaco di Capo d’Orlando ha distrutto la targa di piazza Garibaldi. Il problema è che in Italia la madre dei cretini è sempre incinta, e non smette mai di fare figli.
Tornando alla storia del pool. Lei dice che all’inizio avevate il sostegno dello Stato. Cos’è successo poi?
È successo che lo abbiamo perso. La prima istituzione a porsi contro di noi è stata proprio il Consiglio Superiore della Magistratura. Il pool antimafia di Palermo è stato disgregato dallo Stato già nell’89, la mafia è arrivata solo nel ‘92. Io voglio che questo sia ricordato. Con Falcone e Borsellino ci siamo ripetuti molte volte che “la mafia si combatte a Palermo ma si perde a Roma”. Purtroppo non credo che le cose oggi siano cambiate. Il tutto è aggravato dal fatto che a Roma quando la mafia non ammazza è come se non ci fosse. E dalla corruzione, che non è poca ma un po’ troppa.
Ma l’esperienza del pool antimafia ha pur cambiato le cose…
Qualcosa di importate di Falcone e Borsellino è rimasto. Quegli anni hanno portato la consapevolezza del fenomeno mafioso, di cui prima quasi si negava l’esistenza. Ancora sul finire degli anni Settanta la parola “mafia” era meglio che non si pronunciasse. Lo stesso Borsellino fece un’autocritica, definendosi “colpevole di indifferenza fino ai quarant’anni”. Questo in Sicilia è un fatto molto diffuso ma credo che oggi lo sia molto meno.
Nelle le indagini sulla strage di Capaci si sono ottenuti buoni risultati mentre su quella di via D’Amelio si sa ancora poco. Si riusciranno ad ottenere gli stessi risultati prima o poi o c’è qualcosa che lo impedisce?
Beh, il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, ha una sua tesi a riguardo: se sull’omicidio di Falcone sappiamo quasi tutto è perché ci sono stati i collaboratori di giustizia. Se per il caso di Borsellino non ci sono stati collaboratori, vuol dire che non è solo un fatto di mafia. È una tesi che trovo suggestiva. Non ho elementi per confermarla, però riconosco che non è una cosa campata in aria.