«C’è sintonia fra Cosa nostra statunitense e Palermo» Il viaggio negli Usa del presidente Morra, tra Fbi e Dea

Fbi, Dea, ministro della giustizia. Sono solo alcuni degli incontri avuti nei sei giorni trascorsi negli Stati Uniti dal presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. Una «missione impegnativa», come la definisce lui nella diretta Facebook con cui, in appena 20 minuti, ha aggiornato chi lo segue sui social della settimana appena trascorsa. Una missione che «ha visto la Commissione antimafia, nella delegazione che ha partecipato a questi incontri, particolarmente desiderosa di far capire alle autorità giudiziarie, politiche e investigative statunitensi con cui ci siamo confrontati che o si procede insieme oppure le mafie avranno sempre partita facile. Perché la criminalità organizzata – dice – ormai può pensare di compiere un reato stando qui in Italia e commettendo il reato ben distante dall’Italia. E non è solamente una questione di traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, perché i veri reati sono quelli che inquinano l’economia. Per esempio il reato di riciclaggio, quel reato in virtù del quale io i capitali ottenuti in maniera criminale li reinvesto magari assai lontano dal luogo in cui li ho ottenuti ma in forma pulita, riciclo appunto», spiega il presidente Morra.

«Siamo andati là – prosegue – perché ormai fra Cosa nostra statunitense e Palermo e le famiglie che governano Palermo e Cosa nostra che cerca di riprendere il controllo sui mandamenti palermitani e della provincia c’è sintonia, come hanno dimostrato più inchieste, che negli ultimi mesi hanno prodotto anche degli ottimi risultati. In particolar modo l’inchiesta New connection». Quella, cioè, che lo scorso luglio ha bloccato sul nascere la voglia di riscatto di una delle famiglie mafiose più importanti degli anni ’80, quella degli Inzerillo. I cosiddetti scappati, i mafiosi fuggiti oltreoceano dopo aver avuto la peggio in quella che viene ricordata come la seconda guerra di mafia. Da quando lentamente alcuni di questi avevano iniziato il rientro in patria, nei primi anni 2000, ci sarebbe stata la trepidante attesa di riprendere il controllo a pieno regime dei vecchi affari. O quanto meno del vecchio status gerarchico all’interno di Cosa nostra, non solo a Passo di Rigano, dove la famiglia era tornata al vertice. E dove gli Inzerillo non avevano mai smesso di esercitare un certo potere: dalla fornitura alimentare all’ingrosso alle classiche estorsioni, passando per la gestione dei giochi e delle scommesse on line.  

«Ma siamo andati là anche per occuparci di un caso concreto, reale – torna a dire il presidente Morra -, il caso della mancata ad oggi estradizione di Ferdinando Gallina». Per tutti solo Freddy, nel 2016 è stato accusato dalla procura di Palermo di aver ucciso, insieme ad Antonino Pipitone, Gaspare Pulizzi e Giovanni Cataldo (che oggi non c’è più, ndr) Francesco Giambanco. Lo avrebbero colpito alla testa con un bastone e nascosto poi nel bagagliaio di un’auto, data in seguito alle fiamme. Era il 16 dicembre del 2000. Secondo quanto ricostruito dalle indagini, l’ordine di ucciderlo sarebbe partito dal capo della famiglia mafiosa di Carini, Giovan Battista Pipitone, e dal fratello Vincenzo, che lo ritenevano responsabile della scomparsa di Federico Davì e di alcuni incendi verificatisi nel territorio di Carini. Un delitto, quello di Giambanco come di altri avvenuti sempre nel carinese, su cui si è riusciti a far luce grazie ai racconti dei collaboratori di giustizia. Intanto, mentre a Palermo venivano arrestati i suoi complici, negli Usa a fine 2016 finiva in manette anche Freddy Gallina, che lì c’era arrivato clandestinamente. E per cui si attende ancora l’estradizione, perché sia l’Italia a giudicarlo per gli omicidi di cui è accusato. 

«In Italia di mafiosi ce n’è tantissimi – prosegue il presidente Morra -, e non sono solo quelli condannati con sentenza definitiva, perché per esser tali basta cedere alle lusinghe mafiose. Tutti quanti noi, per quanto non siamo associati, potremmo tuttavia essere concorrenti dell’associazione. Non vedere, non intervenire, non denunciare…questo significa. La mafia è qualcosa che noi pensiamo sempre attraverso stilemi televisivi, cinematografici e facciamo degli errori. Le mafie silenti e dei colletti bianchi sono più pericolose delle mafie capaci dei crimini di sangue, perché se non si fa avvertire il pericoloso rispetto all’azione criminale che si sta producendo, dall’altra parte non si attiverà mai un’azione di contrasto forte. Il delitto di sangue comporta un’attenzione spasmodica, enfatica da parte delle comunità umane – spiega – e quindi con le stragi fatte nel ’92 e nel ’93 i corleonesi di fatto, sfidando alla guerra lo Stato, hanno anche ottenuto una reazione durissima da parte dello Stato. Lo Stato però non deve fermarsi quando cessano i delitti di sangue, deve essere Stato anche se questi ultimi diminuiscono o scompaiono, lavorando per la prevenzione oltre che per la repressione».


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