Le indagini dovrebbero continuare nella direzione di possibili ritardi nelle cure mediche. È la tesi sostenuta dai legali di Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore, i due agenti della polizia municipale sotto indagine per istigazione al suicidio dell'ambulante Salvatore La Fata, morto il 30 ottobre 2014 dopo essersi dato fuoco
Caso La Fata, vigili chiedono le cartelle cliniche Rimandata la decisione sull’eventuale processo
Acquisire le cartelle cliniche e i risultati degli esami a cui Salvatore La Fata è stato sottoposto nel periodo in cui è stato ricoverato nell’ospedale di Acireale. È la richiesta degli avvocati dei due vigili urbani Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore sotto indagine per istigazione al suicidio. Secondo la procura, avrebbero detto all’ambulante «Datti fuoco, ma spostati più in là», nel corso di un servizio antiabusivismo in piazza Risorgimento. Un’affermazione a cui sarebbe seguito l’allontanamento del lavoratore per prendere la benzina da spargersi sul corpo. Il gesto è costato all’ex operaio edile 56enne ustioni di secondo e terzo grado sul 60 per cento del corpo, che avevano reso le sue condizioni gravissime sin dal primo minuto. E che lo hanno portato alla morte dopo undici giorni di agonia. Nel corso dell’udienza preliminare di questa mattina i rilievi degli avvocati Pietro Marino e Salvatore Verzì alla giudice Marina Rizza hanno posto l’accento sull’intervento dei medici catanesi. La decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla procura di Catania è dunque rimandata al prossimo appuntamento nelle aule di piazza Verga. Fissato tra due settimane.
In tribunale, stamattina, c’erano da una parte gli agenti della polizia municipale e dall’altra i parenti di La Fata. La moglie Alfina Poli, rappresentata dall’avvocato Francesco Marchese, ha formulato la sua richiesta di costituzione di parte civile in un eventuale processo. Posizione che è stata accolta dalla gup. A fare discutere è stata anche una eventuale richiesta di risarcimento danni per la famiglia della vittima. Ma la questione è ancora lontana dall’essere dibattuta e sarà oggetto di approfondimento nel corso di un processo che ancora non è certo che sarà celebrato. «Venire qui stamattina e sapere che ancora non è sicuro che i vigili saranno processati per quello che hanno fatto riapre una ferita», commenta Poli. È stata lei, assieme ai fratelli del marito, a battersi sin dal primo momento per la ricerca di testimoni che raccontassero quanto accaduto la mattina del 19 settembre 2014. La procura di Catania in un primo momento aveva annunciato che non sarebbe stata aperta alcuna inchiesta. Avviata solo dopo la denuncia presentata dalla famiglia che si è rivolta anche alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto? per trovare qualcuno che raccontasse come si erano svolti gli accertamenti della polizia municipale.
Secondo i legali di Raddusa e Tornatore, le indagini dovrebbero spingersi oltre. E cercare anche nella direzione di eventuali ritardi nelle cure mediche, che non sono mai stati discussi. «La giudice lo ha detto chiaramente “Ma è tutto scritto, è chiaro”», racconta Alfina Poli che, per via del suo coinvolgimento nel procedimento, ha potuto assistere all’udienza a porte chiuse. Da chiarire restano numerosi punti oscuri. Il principale è probabilmente come La Fata si sia procurato la bottiglia di benzina che ha usato per darsi fuoco. Una prima ipotesi voleva che l’avesse acquistata al rifornimento Eni a pochi metri di distanza dalla bancarella che gli agenti comunali stavano tentando di sequestrargli. Questa versione, però, era stata da subito contestata dai titolari della stazione di servizio, che hanno sempre negato di aver erogato carburante in un modo non consentito dalla legge. Una seconda ipotesi formulata poco dopo voleva che Salvatore La Fata tenesse un accendino e una bottiglia di liquido infiammabile in auto per eventuali emergenze. Secondo i familiari, però, questa versione non è credibile: l’auto di La Fata era un diesel e lui non fumava.