Carmelo Di Giorgio, ucciso per imporre racket sui limoni La figlia: «A Lentini ci fu chi attivò la macchina del fango»

«Nel posto sbagliato, al momento sbagliato? Assolutamente no, mio papà stava lavorando». A parlare è Carmela di Giorgio, la figlia di Melo. Non ha conosciuto suo padre, perché quando lo ammazzarono era ancora dentro la pancia di sua madre. E non ha conosciuto nemmeno i killer, perché un volto ancora non ce l’hanno.

Il 5 gennaio 1979, Carmelo Di Giorgio e Primo Perdoncini, dipendenti della ditta veronese Montresor e Morselli, vennero freddati sul ponte vecchio di Rizziconi, mentre trasportavano un carico di arance e limoni dalla piana di Gioia Tauro verso Verona, a bordo di un autotreno che, su quel tratto di strada – a causa delle diverse strozzature – procedeva a velocità ridotta. 

«Gli agrumi passano per il racket», titolarono alcuni giornali dell’epoca. In quel periodo, la ‘ndrangheta pare avesse il controllo di diverse imprese nel settore dei trasporti e del mercato agrumicolo, per cui chi avrebbe violato le regole mafiose sarebbe finito nel mirino dei boss. «Mio padre era la persona di fiducia dell’azienda, di solito viaggiava con la sua macchina, ma quel giorno decise di salire sul camion per far compagnia a Primo, erano amici», racconta a MeridioNews Carmela.

La scarica di piombo frantumò il parabrezza e i finestrini laterali del mezzo pesante, colpendo alla testa e alle spalle i due: «Uno dei proiettili è entrato nella testa di papà, poi è uscito e ha attraversato quella del compagno», continua la donna. I due autotrasportatori vennero trasportati d’urgenza all’ospedale di Rizziconi, in fin di vita, poi negli ospedali riuniti di Reggio Calabria dove morirono a ventiquattro ore l’uno dall’altro. Probabilmente i sicari non conoscevano nemmeno le loro identità: l’agguato, secondo quanto scrissero allora i giornalisti, sarebbe servito per «stravolgere il commercio di agrumi delle altre società», abbattendo la concorrenza a favore degli interessi mafiosi.

Carmelo aveva 24 anni. A dargli l’ultimo saluto sul lettino della rianimazione c’erano la moglie Anna, allora appena 23enne e incinta di tre mesi, i genitori, arrivati lì senza capire cosa fosse successo esattamente. «Quell’assassinio fu clamoroso, a Lentini non si parlava d’altro. Al funerale, celebrato nella chiesa di Santa Lucia, c’erano tantissime persone, ma non tutte erano venute per dare sostegno alla mia famiglia – spiega Carmela -. Si era attivata una sorta di macchina del fango, alcune comari dicevano che mio padre se la fosse cercata o peggio ancora che fosse un malavitoso, senza conoscere i fatti. Ma ciò di cui aveva bisogno veramente mia madre – continua – era la vicinanza delle persone care e quella non è mancata. Sei mesi dopo sono nata io e la vita è andata avanti», aggiunge.

Di Melo oggi restano tanti ricordi, dai tempi di radio Lentini 1, costruita artigianalmente insieme alla moglie, e non solo, alle foto ingiallite e ai video muti. «Crescendo, ho idealizzato la sua figura, a volte credevo che spuntasse da un momento all’altro – ricorda la figlia –. Altre volte, pensavo che non si può avvertire la mancanza di una persona mai conosciuta. Ma quando sono diventata mamma e ho toccato con mano l’amore di mio marito nei confronti delle mie bimbe, ho capito cosa, inconsapevolmente, mi è mancato».

A distanza di un paio di anni da quella barbara uccisione, un piccolo Comune calabrese ha intitolato una via a Carmelo Di Giorgio e Primo Perdoncini. Il comune di Lentini, invece, ha dedicato una targa – distrutta qualche mese fa da tre minorenni – alle vittime di mafia lentinesi, tra cui lo stesso Melo.  

Danilo Daquino

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