Brancaccio, quando la mafia fiuta l’affare degli spaccaossa «Quadro desolante, Cosa nostra specula sugli emarginati»

«Il quadro desolante che viene fuori è ancora una volta deprimente». Il questore Renato Cortese sospira, per un attimo sembra farsi sopraffare dallo sconforto. La Palermo irredimibile, quella degli spaccaossa, torna a far parlare di sè per la terza volta in poco più di un anno. Dopo le due operazioni condotte dalla squadra mobile ad agosto 2018 e aprile 2019 – in cui era emerso uno spaccato fatto di marginalità e persone in difficoltà pronte a farsi rompere un arto per truffare le compagnie assicurative (salvo poi essere truffati dai propri aguzzini) – questa volta, però, la polizia ha individuato il ruolo della mafia. Almeno a Brancaccio, dove sono scattate le manette per nove persone. Gli indagati rispondono, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, auto riciclaggio, danneggiamento fraudolento di beni assicurati ed altro.

Il provvedimento giunge al termine di una complessa attività d’indagine effettuata sul mandamento mafioso di Brancaccio con particolare riferimento ai fratelli Michele e Stefano Marino, pregiudicati mafiosi ed elementi di spicco, rispettivamente, della famiglia di Corso dei Mille e di quella della Roccella. I quali, considerato il loro curriculum di spicco nell’ambito criminale, avevano fiutato l’affare degli spaccaossa. Almeno una decina i casi accertati nei quali ci sarebbe stato il loro intervento: un lucroso giro di denaro che, insieme al traffico di stupefacenti, permetteva un incasso di cinquemila euro al giorno relativi esclusivamente al quartiere Sperone. Soldi che poi pare fossero destinati soprattutto ai detetenuti.

«È il segno che Cosa nostra  è in difficoltà – commenta Cortese -, il segno che Palermo sta riprendendo il territorio. Qui c’è uno Stato che vince e una mafia sempre più in ginocchio. Una mafia che addirittura specula sui disagi della povera gente, degli emarginati. Noi come polizia siamo vicini ai quartieri popolari, ma quando c’è da intervenire siamo presenti con la dovuta forza». Il controllo di Cosa Nostra, in ogni caso, resta ancora capillare in molti quartieri. A Brancaccio, ad esempio, secondo quanto emerso dalle indagini, per effettuare una rapina a mano armata a danno di un corriere alcuni malviventi avevano chiesto il lasciapassare ai fratelli Marino.

I due avrebbero gestito inoltre le numerose e assai redditizie piazze di spaccio della zona. Tra i loro più fidati collaboratori figurano Nicolò Giustiniani, Antonino Chiappara, Ignazio Ficarotta, Angelo Mangano, Pietro Di Paola, Sebastiano Giordano, Raffaele Costa: costoro si occupavano anche della verifica del lavoro e degli incassi dei pushers. «Erano una sorta di esattori – spiega il dirigente della squadra mobile di Palermo Rodolfo Ruperti – A tutti abbiamo contestato l’aggravante del metodo mafioso, mentre i due fratelli Marino erano già sotto il regime della sorveglianza speciale. Coi nove fermi di oggi, coordinati dalla procura della Repubblica di Palermo, abbiamo assestato un duro colpo al mercato dello spaccio nel quartiere. Mentre il giro di affari degli spaccaossa è difficilmente quantificabile, certamente si tratta di centinaia e centinaia di migliaia di euro. Un business che non era sfuggito a Cosa nostra, che lo alimentava e cercava di trarne il massimo profitto. La mafia esigeva i soldi dagli spaccaossa recalcitranti, che non volevano fornire la quota a Cosa nostra, anche attraverso azioni violente». 

Il trait d’unione tra la mafia e gli spaccaossa sarebbero stati Massimiliano Vultaggio e Michele Caltabellotta, già arrestati nelle precedenti operazioni, che erano a stretto contatto con i fratelli Marino, attraverso i quali avrebbero accresciuto notevolmente il loro volume di affari nell’affollatissimo settore delle frodi assicurative. Erano i fratelli Marino ad assumere poi direttamente il controllo delle pratiche assicurative, delegandone la gestione a Vultaggio e Caltabellotta, i quali a loro volta incassavano la liquidazione del danno e ne restituivano una quota alle famiglie di Cosa nostra.

Ma i soldi, evidentemente, non bastano mai ai mafiosi. Nelle more dell’indagine portata avanti dalla squadra mobile si è scoperto come cinque dei nove arrestati percepivano anche il reddito di cittadinanza: Di Paola, ad esempio, usufruiva della quota massima del sussidio targato M5s, 780 euro, mentre Ficarotti ne incassava 600 euro e Mangano e la moglie 1300 euro insieme. Tutti ad eccezione di Mangano sorvegliati speciali, tra l’altro. La moglie di Giustiniani, invece, percepiva il reddito anche se abitava in una villa sfarzosa dal valore di (almeno) 300mila euro. In casi come questi torna dunque il tema di un maggior controllo su chi usufruisce di questa misura, a Palermo come altrove. All’arrivo dei poliziotti uno degli arrestati ha gettato dal balcone circa ottomila euro in banconote, più una manciata di carte di credito.


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